di Viviana Ponchia Il tesoro è nascosto in un caveau della Banca d’Italia dal giugno del ’46. Un cofanetto di pelle nera a tre piani con fodera di velluto azzurro e 11 sigilli dentro cui sonnecchiano 6.732 brillanti e 2 mila perle montati su collier, orecchini, diademi e spille varie. Sono i monili con cui si facevano belli i Savoia, rimasti fuori dalla confisca di tutti gli altri beni mobili e immobili della famiglia reale italiana. Regali e acquisti personali e non oggetti assegnati al re per l’adempimento delle sue funzioni. La definizione esatta, nessuno si metta a ridere, è "gioielli di uso quotidiano". Potrebbero valere 300 milioni di euro. O forse un milione scarso, i soliti malpensanti sussurrano che l’ex casa regnante, nel passaggio fra monarchia e repubblica, avrà magari rifilato all’allora governatore della Banca Luigi Einaudi un po’ di paccottiglia, tenendosi i pezzi davvero preziosi. Per calcolo o per principio, bijoux o meno, comunque i Savoia li rivogliono tutti. Per questo il principe Vittorio Emanuele e le principesse Maria Gabriella, Maria Pia e Maria Beatrice citeranno in giudizio la presidenza del Consiglio, il ministero dell’Economia e la Banca. La mediazione tentata ieri è fallita. Gli eredi di Umberto II puntano i piedi per la prima volta sostenendo che a differenza del resto del patrimonio non sono mai stati confiscati. E perché li vogliono indietro solo ora? Perché prima una richiesta del genere avrebbe scatenato ondate di risentimento. Ora i tempi, invece, sono maturi. Un’istanza di restituzione era già stata avanzata a novembre, ma tre giorni dopo la Banca d’Italia aveva risposto picche. E così ieri è iniziata e finita subito quella che sembrava destinata a essere una lunga mediazione. Per discutere sulle modalità della restituzione si sono seduti attorno a un tavolo l’avvocato Sergio Orlandi, legale della famiglia, con i ...
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