Mercoledì 24 Aprile 2024

Rialzarsi e correre. È l’Italia che vince: "Adesso portiamo i giovani in pista"

L’appello di Jacobs vale per lo sport e per la vita. E il karateka Busà ha sconfitto obesità e bullismo mettendosi in gioco

Filippo Tortu, 23 anni, in lacrime

Filippo Tortu, 23 anni, in lacrime

Sentir ripetere in questi giorni di Olimpiadi che l’Italia è il Paese più veloce del mondo può suscitare più di qualche sorriso amaro, pensando alle file, agli ingorghi burocratici, alle code autostradali, alle lentezze tribunalizie, alle procedure estenuanti.

Ma proprio per illuminare questo paradosso, è da sottolineare quel che alcuni dei nostri campioni stanno dicendo: mettete i giovani in pista. Dice così, il campione dei 100 e della staffetta 4x100 Marcell Jacobs, invitando le famiglie italiane a portare i figli sulle piste di atletica. Lì si impara a prefiggersi un obiettivo, a sognare, a tener duro, a riprendere dopo batoste e fallimenti.

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E anche il campione di karate, Luigi Busà, raccontando la sua uscita da uno stato penoso di obesità attraverso lo sport, indica una strada. Lo sport come ambiente dove si impara a mettersi in gioco, ad assumersi la responsabilità di provarci, di perseguire un ideale: insomma, il contrario di quella irresponsabilità e di quel pararsi sempre le spalle che origina, appunto, la farraginosità, la lentezza burocratica, la stasi da palude del nostro Paese.

Vale per la vita di una società come per la vita di una persona: l’atletismo dello spirito e del corpo uniti possono aiutare a creare una personalità attiva e propositiva. L’autocommiserazione, il vittimismo, l’assenza di sfide generano invece gente perplessa, inane, seduta. Non si tratta di recuperare vecchi slogan dei totalitarismi di ogni segno che esaltavano – in Italia come in Russia – i campioni dello sport come esempi di umanità luminosa e vittoriosa, a immagine del regime.

La tentazione di pensare che questi campioni siano l’immagine dell’Italia di oggi si infrange subito guardandosi intorno e vedendo diffondersi ovunque una mentalità da sussidio, da parassitismo statalista, da burocrazia e controllo soffocante. Ma proprio per questo l’invito dei nostri campioni vale doppio. Occorre lanciare i giovani in un processo educativo dove lo sport come altre dinamiche sia volto a temprare le forze, a invitare all’allenamento e al rischio di perseguire un ideale e un obiettivo. È forse così la nostra scuola ? O forse accade proprio che i “mister” e gli “allenatori” abbiano oggi tre volte l’importanza di un professore di scuola? I campi di atletica, le palestre, le piscine sono forse tra i luoghi dove i nostri ragazzi incontrano adulti che li educano.

L’invito di Jacobs & co. non è da intendere solo come un invito un po’ all’americana a riscoprire una mentalità da vincitori. Non si tratta di inoculare ai ragazzi la favola bella (ma anche tragica) dell’"impegnati che ce la farai a essere il numero uno". No, si tratta di un invito a riscoprire anche attraverso lo sport una educazione al tentativo, all’impegno come dinamica normale del vivere.

Siamo in un’epoca dove l’invito più potente che arriva ai nostri giovani è invece "tira a campare, assicurati le migliori condizioni che puoi col minimo sforzo, e poi diveriti e intrattieniti". L’esempio di ragazzi che ce la fanno con mille sacrifici e passando tra delusioni e scoramenti, mai abbandonati da adulti che credono in loro e che con loro condividono tempo e fatica, può essere salutare. Non riduciamolo a retorica della vittoria, o a spot. E nemmeno a compiacimento ridicolo.

L’Italia ha bisogno di ragazzi che corrono, di adulti che li accompagnano nelle sfide, di luoghi dove si respira una sana valorizzazione del talento (e ciascuno ne ha uno) e di messa in gioco. La lezione che arriva da questi risultati può stimolare chi ha responsabilità educative, politiche sociali a leggere esigenze e possibilità che vivono nella nostra società ma sono spesso eluse quando non compresse o frustrate dalla distrazione e dai comportamenti di Istituzioni, scuole, ambiti di influsso sulla vita dei giovani, come i media e le fabbriche del gusto.

Non tutti devono tagliare per primi un traguardo ma tutti devono correre per il traguardo della propria realizzazione umana e personale. E questo avviene con un vero atletismo dello spirito oltre che del corpo. Lo diceva già san Paolo, prima di Jacobs.

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