Giovedì 18 Aprile 2024

Rapita, drogata e uccisa dai clan Quattro indagati dopo 47 anni

Como, la 18enne Cristina Mazzotti fu sequestrata nel ’75 dalla ’ndrangheta. Il corpo venne ritrovato in una discarica

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di Gabriele

Moroni

Per quaranta giorni la sua tomba è una buca. Il sudario, a coprirla, una bambola rotta. Lo scheletro di una carrozzina la croce, in quell’orrida discarica a Galliate, nel Novarese. La sera fissata per restituirla alla libertà, Cristina Mazzotti non prende sonno. Le fanno inghiottire alcune compresse di Valium, l’ordine è di consegnarla addormentata. Racconterà uno dei carcerieri: "Non saprei dire cosa sia successo, forse si trattò di una dose eccessiva per quel fisico già tanto debilitato. Fatto sta che ebbe un collasso. E accadde l’irreparabile".

A quasi mezzo secolo il gusto tragico di un orrore mai cancellato: la procura di Milano ha avviato una nuova inchiesta (la terza) per il sequestro e la morte di Cristina Mazzotti, prima donna a essere rapita al Nord Italia. Sono indagati per omicidio volontario Demetrio Latella, Giuseppe Calabrò, Antonio Tàlia, Antonio Romeo. L’"irreparabile" per Cristina Mazzotti inizia la notte fra il 30 giugno e il primo luglio 1975. Ha diciotto anni. Sta rientrando nella villa di famiglia a Eupilio, nel Comasco, dopo la festa per la promozione in terza liceo. Una Giulia 1750 e una Fiat 1550 si affiancano alla Mini dove Cristina viaggia con gli amici Emanuela e Carlo, la bloccano. Scendono in due, armati e mascherati con passamontagna. "Chi è Cristina Mazzotti?". "Sono io", risponde lei timidamente. Legano i due amici e fuggono con Cristina.

In quella Italia la violenza politica è divisa fra Brigate rosse e Nar. Si è avviata la lunga stagione dei sequestri di persona. Nel 1970, dopo le rivolte nelle carceri di Linosa e Lampedusa, la magistratura ha deciso di trasferire il domicilio coatto dei malviventi dalle isole al settentrione delle penisola. È stata una diaspora di mafiosi e banditi al nord. Le famiglie e anche i parenti meno stretti li hanno raggiunti. I clan si sono riuniti. I sequestri hanno assunto una dimensione industriale. Quello dell’industriale Pietro Torielli, a Vigevano, il 19 dicembre del 1972, è stato il primo sonoro campanello d’allarme. La paura è diventata la sinistra compagna dei ’cumenda’ lombardi (ci sono quelli che mandano i figli a studiare in Svizzera) ma anche di chi ha faticato e sudato la sua modesta agiatezza.

La prima richiesta di riscatto per Cristina è di cinque miliardi di lire, inarrivabile anche per Helios, il padre, a capo di una solida azienda nel campo dei cereali. Alla fine ci si accorda per un miliardo e 50 milioni che papà Helios consegna il 15 luglio in un appartamento ad Appiano Gentile. Ma Cristina non ricompare. Il primo settembre arriva invece una telefonata anonima, che indica ai carabinieri di scavare nella discarica di Galliate. Quello di Cristina Mazzotti oggi è considerato un sequestro ’misto’, il primo ideato e compiuto da una banda del nord legata alla ‘ndrangheta calabrese.

La gestione finisce presto in Calabria, a Lamezia Terme, nelle mani di Antonino Giacobbe. Ma a differenza di quello che avverrà per i numerosi rapimenti successivi, l’ostaggio non verrà mai trasferito sull’Aspromonte. La detenzione di Cristina si trascina in uno spazio umido, ricavato nel terreno di un garage a Castelletto Ticino. Responsabile della custodia è Giuliano Angelini. Si diletta di medicina e alterna la somministrazione alla prigioniera di farmaci soporiferi a eccitanti. Il gruppo (ci sono anche due donne, un gelataio, un macellaio amante della bella vita) riceve dalla Calabria un compenso di ’appena’ 104 milioni, una punizione per la morte dell’ostaggio. Libero Ballinari, colui che ha portato il corpo di Cristina in discarica, pensa bene di trasferire subito i soldi nella Confederazione per "ripulirli". Il direttore di una banca, insospettito dall’anomalo versamento, avverte la polizia cantonale.

Dal processo, nel 1977, a Novara, escono tredici condanne, fra cui otto ergastoli. Per anni è buio fitto sugli esecutori materiali del sequestro. Solo nel 2007 una impronta digitale porta a Demetrio Latella, un passato nella banda di Angelo Epaminonda.