Raoul Casadei, Pupi Avati: "Vai con l’orchestra, quella sì che è musica"

Il regista: è un ballo di coppia, carico di erotismo, che fa incontrare l’amore. "Col senno di poi mi dico: peccato aver suonato solo il jazz"

Raoul Casadei al Lido di Savio

Raoul Casadei al Lido di Savio

Pupi Avati, cosa ha significato Raoul Casadei con la sua musica per lo ’sdoganamento’ a livello italiano e internazionale della Romagna?

"Una chiave, un supporto identitario fortissimo, attraverso un genere musicale che si perpetua nei decenni, dall’Ottocento fino a oggi; qualcosa di inalterato".

Un genere diventato ’radical chic’ grazie agli Extraliscio.

"Che guarda caso ho utilizzato nel mio ultimo film Lei mi parla ancora. Ma anche loro non si discostano più di tanto, è una musica inchiavardata dentro a parametri e a forme che sono rimasti assolutamente quelli. Quei musicisti poi sono straordinari: potrebbero essere dei grandi jazzisti".

E la chiave identitaria più forte nel liscio?

"La necessità improcrastinabile della coppia. È un ballo che si rivolge alla coppia con una gioiosità sostanziale e con un’allusione erotico-sessuale molto forte. Sono balli di corteggiamento, cosa che in quelli moderni si è completamente perduto. Oggi cominci a ballare con una tua amica e ti ritrovi in un attimo a ballare con tuo cugino...".

La canzone simbolo?

"Credo che Romagna mia sia fra tutte quella che non si batte, la canzone più identitaria che sia mai stata fatta".

Da jazzista, come si confrontava con i colleghi del liscio?

"Con un sano snobismo da Bologna bene. Con la diffidenza di chi amava il jazz. Questo accadeva quando ero giovane. Mentre invece i Casadei, da Raoul a Riccarda, hanno sempre avuto riguardo al mio cinema un’attenzione e una riconoscenza che forse non ho meritato".

Quel ’mood’ da liscio in un suo film è però portante.

"La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone, sì. Nel 1975 quando ho cercato di dare una svolta alla mia carriera, una mia precisa calligrafia, incentrandomi sulla mia terra: non solo ho raccontato i matti di paese ma l’accompagnamento non pova essere che il liscio che ritengo stia bene accanto ai matti di paese. Tra l’altro per quella colonna sonora coinvolgemmo grandi musicisti a partire da Henghel Gualdi".

Altro titolo in qualche modo connesso: ’Dancing Paradise’.

"Lì raccontavo il mito dell’orchestra da ballo che certo includeva anche il liscio, ma non solo. Ho fatto con quel film televisivo un inno a quelle grandi orchestre da ballo che avevano casa in Emilia-Romagna. Ricordo, perché ho fatto parte anch’io di quel mondo, che partivano da un bar in via Indipendenza a Bologna, il bar Igea: tutti i venerdì era il punto di ritrovo dei capi orchestra della regione, un po’ come il mercato del bestiame... andavano lì e incontravano gli impresari o i proprietari delle sale da ballo, alcuni avevano nomi e soprannomi improbabili...".

Tipo?

"’Oceano’ Trebbi, che si era scelto il nome d’arte ispirandosi al musical Bulli e pupe. Tutti con quell’atteggiamento e quel modo di vestire gangsteristico. Lì si decidevano le serate: domani sei a Casale Monferrato dopodomani a Bisceglie...facevi dei percorsi pazzeschi. Si suonava fino alle 2 di notte poi si smontava tutto e si ripartiva per correre dall’altra parte dell’Italia. Una carovana brancaleonesca con carriolini attaccati dietro le macchine carichi di strumenti, nelle nebbie degli inverni più bestiali".

Sembra già di sfogliare un libro di storia...

"Una storia d’Italia sopravvissuta nel liscio dove ancora oggi sopravvive l’orchestra: un elemento di comunicazione, di interconnessione tra chi balla e il palco. Qualcosa di profondamente umano che con un dj certo non esiste. E poi, parliamo di una musica e un ballo anagraficamente compatibili con tutte le età e volto all’acchiappo. Quello di oggi, ribadisco, ha perso il senso più profondo: incontrare una compagna non dico per tutta la vita, ma almeno per la serata".

Insomma, nelle nottate romagnole di allora, tra jazz e liscio era guerra?

"Ci siamo sempre sfiorati con grande insofferenza. Da parte nostra. Con la supponenza, come ho detto, di chi abitava nei quartieri alti bolognesi e suonava la musica che veniva dall’America. Col senno di poi, un peccato".