Lea Pericoli: "Racchetta, minigonna, mutandine di pizzo"

Gli inizi in Africa, la malattia, la fame di vittorie. La Divina si racconta: grazia e femminilità, ho portato lo stile nello sport "A vent’anni l’incontro con lo sitlista gay Ted Tinling, fu lui a lanciarmi. Che ricordi quelle partite a strip poker con Pietrangeli..."

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Niente partita di golf stamattina. Lea Pericoli, la signora del tennis, è una milanese nella zona rossa. Lei che pure non teme né il Covid, né il peso dei suoi riveriti 85 anni, compiuti il 22 marzo, all’inizio del lockdown. "Mi costa stare rintanata e rinunciare al golf, il mio secondo amore", spiega. Il primo, ovviamente, è la racchetta.

Signora, ha passato la vita a inseguire palline?

"Nella mia esistenza precedente sarò stata un cane. Ho iniziato ad Addis Abeba su un campo in terra, nel giardino di una villa inglese. Ero una bambina: quel gioco mi folgorò".

Che cosa faceva in Etiopia?

"Avevo due anni, io e mamma Iole ci imbarcammo sul Conte Rosso per raggiungere mio padre Filippo. Fece fortuna con una ditta di import. Poi scoppiò la guerra, arrivarono gli inglesi e venne internato. Perdemmo tutto. Ma era un abile uomo d’affari, il Negus lo graziò e lui si rimise in sella. Diventammo di nuovo ricchi e di nuovo poveri: la costante della mia famiglia".

Lei intanto giocava a tennis?

"Non capivo nulla dell’Africa. Però ero una sportiva: andavo a cavallo e facevo hockey su prato. Non mi piaceva perdere e a tennis invece perdevo: avevo solo avversari adulti. Uno in particolare, un avvocato che si chiamava Kernot. Finita la partita mi nascondevo in un angolo e piangevo per ore. Inconsolabile".

L’ha più rivisto?

"Trent’anni dopo al Foro Italico. Bussò la guardarobiera: un signore inglese vuole salutarla. Era lui. Gli rivelai quanto mi avesse fatto soffrire da piccola. Le ferite le porto ancora dentro: per me conta vincere e basta".

Ha vinto tantissimo: 27 titoli italiani, record assoluto. Non è abbastanza?

"Ero una buona giocatrice, non una campionessa. Sono stata fra le prime 16 del mondo. Ho battuto cinque vincitrici di Slam, tre volte negli ottavi a Wimbledon, quattro volte al Roland Garros, la semifinale del ‘67 a Roma. Tutto da autodidatta, il mio tennis era istintivo e selvaggio".

Con un’arma micidiale: il pallonetto.

"Io e Silvana Lazzarino, compagna storica di doppio, avevamo un primo turno impossibile al Foro. L’organizzatore del torneo Carlo Della Vida ci consigliò: tirate ogni palla in cielo. Le avversarie erano stordite, arrivammo in finale".

Sui campi è diventata subito un mito. Per bravura e bellezza...

"Ho sempre tenuto molto al mio aspetto. Anche adesso, se non sono truccata e con i capelli a posto resto a casa".

La chiamavano Divina come Suzanne Lenglen, la più grande di sempre. Chi le diede quell’appellativo?

"È stato Gardini. Fausto mi iscrisse di nascosto alle selezioni di Miss Italia a Cortina: vinsi ma la piantai lì, alla finale mi avrebbero stracciata. E io, come ho spiegato, non gradisco perdere".

Si consolò diventando Miss Tennis?

"Accadde a Wimbledon nel ‘55. Avevo vent’anni e incontrai lo stilista Ted Tinling, un ex colonnello alto, calvo e gay. Fu lui a lanciarmi".

Culotte e sottanine di pizzo sul campo da tennis. Che cosa successe?

"Le donne giocavano con gonne lunghe al ginocchio, l’idea diffusa era che fossero muscolose. Arrivai io in lamè e mutandine di tulle e fu l’inferno: paparazzi e pubblico impazzito attorno al court. In quel circo persi la concentrazione e la partita. Me ne andai piangendo".

Fu uno scandalo?

"Mio padre era furioso: hai chiuso con il tennis, intimò. Aprì la gabbia dopo due anni".

Ricominciò a indossare le sue seducenti toilette?

"Sottanine rosa, piume di cigno, un gonnellino di visone. In un torneo africano avevo un vestito dorato e mutandine tempestate di brillanti. Quei completi sono esposti al Victoria & Albert Museum di Londra, simbolo di eleganza nello sport. In nome di tutte le donne".

Femminilità batte femminismo?

"Negli anni ‘70 l’onda femminista irruppe nel tennis. Ci fu la sfida fra Bobby Riggs, campione ultracinquantenne, e Billie Jean King che era ai vertici delle classifiche. Passò alla storia come la battaglia dei sessi, la donna contro il vecchio maiale sciovinista. Vinse lei".

Ne fu felice?

"Non mi sono riconosciuta in quel movimento, troppo fanatismo. La guerra all’uomo è ridicola: la differenza di genere esiste, e menomale. È così bello farsi coccolare, sentirsi protette e amate dal maschio".

Signora, si rende conto di rischiare il rogo?

"Figuriamoci. L’uomo dev’essere cavaliere e la donna va conquistata".

Ha conosciuto molti cavalieri?

"Uno su tutti: Nicola Pietrangeli. È l’uomo più affascinante che abbia mai incontrato. Ma talmente pigro che la sua biografia l’ho scritta io".

Soltanto amici?

"Fra noi non è successo niente, siamo stati complici e confidenti. Abbiamo giocato poco il misto assieme perché faceva il galante con le avversarie e rimproverava me: Lea, come puoi sbagliare una palla così. A volte mi chiede: perché non ti ho sposata? La mia risposta è: io avevo sempre un altro, tu almeno altre due".

Le vostre vite sono ancora oggi parallele.

"Io e Nicola veniamo da un altro mondo. Il nostro tennis era dilettantismo puro, senza soldi. Ma si viaggiava, conoscevamo personaggi straordinari. Dormivamo nelle pensioncine, le più carine di noi venivano invitate a cena: dopo il dolce però, arrivederci e grazie".

È vero che vi giocavate la colazione a carte?

"Ramino e scala quaranta. Una notte prima di Wimbledon ci trovammo io, la Lazzarino e Nicola per una partita di strip poker".

Come andò?

"Uhm... Silvana fu più audace di me".

E Pietrangeli?

"È tornato in camera con un asciugamano in vita".

Lei si è ritirata nel 1975 a 40 anni vincendo tre titoli italiani: perché disse basta?

"Il tennis è stato un grande amore. E i grandi amori vanno lasciati prima che diventino vecchi mariti".

Nel 1973 ha vinto la partita più difficile.

"Campionessa d’Italia sei mesi dopo l’operazione per un carcinoma all’utero. E nel 2012 ho superato un tumore al seno. Il professor Veronesi mi disse: la tua battaglia pubblica vale cento conferenze".

Una donna forte. E il soprannome di Coniglio coraggioso?

"Montanelli mi chiamava così perché avevo paura di sbagliare. Credeva in me e mi affidò la rubrica della moda al Giornale. Ho fatto radio, sono stata telecronista, conduttrice con Jocelyn, attrice, scrittrice, pittrice. Non mi sono mai fermata".

Tailleur pastello e occhiali fumé, è un’intramontabile icona di charme. Che cos’è lo stile?

"Ascolto la lezione di Armani: Lea, la moda non va seguita ma governata".

Come si sente a 85 anni?

"Bene, memoria a parte. Semino bigliettini per casa e faccio un gran casino ma così dimentico anche i dolori passati. Guardo avanti, sono innamorata della vita: mi seccherà lasciarla, il più tardi possibile".

 

 

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