Quella diga sul fiume Enza Progetto fermo da 162 anni

Potrebbe assicurare l’acqua alla produzione del Parmigiano Reggiano. Se ne parla dal 1860. Nel 1988 i primi lavori, bloccati per salvare le lontre

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di Andrea Fiori

Chissà. Se quel giorno mamma lontra si fosse trattenuta, forse sarebbe andata diversamente: lungo il torrente Enza – che nasce in Appennino e affluisce sulla sponda destra del Po, segnando il confine tra le province di Parma e di Reggio –, oggi svetterebbe una diga con relativo bacino d’acqua, capace di alimentare i prati foraggeri della filiera del Parmigiano Reggiano, di produrre energia elettrica, di evitare alluvioni alla foce (l’ultima, nel 2017, sommerse Lentigione di Brescello) e, perché no, di attirare un po’ di turismo sul laghetto.

E invece la lontra – un simpatico mustelide somigliante alla più comune nutria – non si trattenne. Segnalò la sua preziosa presenza. E i lavori della diga – di cui si discuteva da prima dell’Unità d’Italia – si interruppero. "Lungo il fiume Enza è presente una delle ultime famiglie di lontra, animale rarissimo, protetto dalla convenzione di Berna". Era l’ottobre del 1988: i deputati radicali e verdi Adele Faccio, Maria Adelaide Aglietta ed Emilio Vesce, presentarono un’interrogazione che – rafforzata appunto dal fresco ritrovamento di reperti organici – diede forse la spallata definitiva al cantiere. I lavori si fermarono di lì a breve, dopo la costruzione del cosiddetto ‘taglione’, cioé il piede di cemento armato: 368 milioni di lire buttati.

Da allora molte cose sono cambiate. Sopravvive il partito dei No e, in perfetto equilibrio, il partito della diga. La penuria d’acqua dei mesi estivi spinge ciclicamente le associazioni agricole a lanciare appelli sempre più pressanti alla classe politica. Nei Comuni affacciati lungo la valle si svolgono assemblee favorevoli all’idea originaria, quella di innalzare un grande invaso. La Regione Emilia-Romagna, per voce del presidente Stefano Bonaccini, sembra invece più propensa alla creazione di più bacini, di minore impatto.

Chissà cosa direbbe, nel suo italiano aulico, il dottor Giuseppe Carlo Grisanti, il primo ad abbozzare il progetto di un grande serbatoio idrico che servisse ad irrigare le pianure. Era il 1860, si erano da poco spenti gli echi delle sanguinose battaglie di San Martino e Solferino, Camillo Benso Conte di Cavour governava il Regno di Sardegna (che da poco aveva annesso il ducato di Modena e Reggio) e Giuseppe Garibaldi salpava da Quarto.

Tre anni più tardi, mentre in America infuriava la guerra tra nordisti e sudisti, il progetto dell’invaso – perfezionato dall’ingegner Carlo Lari – ottenne l’approvazione di massima del ministero dei Lavori pubblici, ma finì in un cassetto.

Nel 1926 alcuni gerarchi si fecero fotografare nell’Enza dopo aver assistito ai sondaggi per stabilire la posizione dello sbarramento. Ma arrivò la guerra.

Nel 1946 il segretario del sindacato edili assicurò che nella primavera del ’47 "verrà installato il cantiere, avendo già il ministero approvato tutta l’opera". Negli anni Sessanta fu invece l’Ufficio tecnico erariale ad elaborare un nuovo progetto destinato, ovviamente, al cestino. Vent’anni dopo l’opera sembrò a un passo dal via libera. Il ministero dell’Agricoltura incaricò la Bonifica Bentivoglio Enza, che affidò il progetto al prestigioso studio Marcello di Milano. Approvato nel 1984 dal Consiglio superiore dei lavori pubblici, il piano costava 97 miliardi di lire. Nel 1988 fu ammessa al finanziamento una prima tranche, valore 30 miliardi. Il Consorzio di bonifica appaltò i lavori e la Pizzarotti di Parma avviò la costruzione del basamento.

Il resto è storia recente: le manifestazioni a difesa dell’ecosistema, le lontre, le interrogazioni. Il ministro dell’Ambiente sospese i lavori. Serviva uno studio sull’impatto ambientale. La Bonifica e le due Province lo prepararono. Era il 1992, l’anno di Mani Pulite. Il Ministero lo approvò, ma la creazione della diga venne subordinata ad alcune prescrizioni a carico di Consorzio di bonifica, Autorità di bacino del Po e Regione. I primi due risposero prontamente, la Regione invece dimenticò di fare i compiti. E così, dopo 162 anni, della diga è rimasto solo un gradino di cemento, incapace di contenere il fiume di parole.