di Andrea Fiori Chissà. Se quel giorno mamma lontra si fosse trattenuta, forse sarebbe andata diversamente: lungo il torrente Enza – che nasce in Appennino e affluisce sulla sponda destra del Po, segnando il confine tra le province di Parma e di Reggio –, oggi svetterebbe una diga con relativo bacino d’acqua, capace di alimentare i prati foraggeri della filiera del Parmigiano Reggiano, di produrre energia elettrica, di evitare alluvioni alla foce (l’ultima, nel 2017, sommerse Lentigione di Brescello) e, perché no, di attirare un po’ di turismo sul laghetto. E invece la lontra – un simpatico mustelide somigliante alla più comune nutria – non si trattenne. Segnalò la sua preziosa presenza. E i lavori della diga – di cui si discuteva da prima dell’Unità d’Italia – si interruppero. "Lungo il fiume Enza è presente una delle ultime famiglie di lontra, animale rarissimo, protetto dalla convenzione di Berna". Era l’ottobre del 1988: i deputati radicali e verdi Adele Faccio, Maria Adelaide Aglietta ed Emilio Vesce, presentarono un’interrogazione che – rafforzata appunto dal fresco ritrovamento di reperti organici – diede forse la spallata definitiva al cantiere. I lavori si fermarono di lì a breve, dopo la costruzione del cosiddetto ‘taglione’, cioé il piede di cemento armato: 368 milioni di lire buttati. Da allora molte cose sono cambiate. Sopravvive il partito dei No e, in perfetto equilibrio, il partito della diga. La penuria d’acqua dei mesi estivi spinge ciclicamente le associazioni agricole a lanciare appelli sempre più pressanti alla classe politica. Nei Comuni affacciati lungo la valle si svolgono assemblee favorevoli all’idea originaria, quella di innalzare un grande invaso. La Regione Emilia-Romagna, per voce del presidente Stefano Bonaccini, sembra invece più propensa alla creazione di più bacini, di minore impatto. Chissà cosa direbbe, nel suo italiano aulico, il dottor Giuseppe Carlo Grisanti, il primo ...
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