
"Non c’è mai una ragione sola per arrivare ad azioni di questo tipo. Ma non è quel che viene chiamato “un raptus“, non è un qualcosa che nasce dal nulla. È una costruzione lenta e progressiva di una psicocopatologia, la edificazione mattone dopo mattone di un complesso castello di motivazioni che in un momentio di particolare stress personale o di un fattore esterno percepito come traumatico, fa ritenere al soggetto in questione che la misura è colma e fa scatenare la violenza". Così la psicologa e psicoterapeuta Laura Rinella.
Dottoressa Rinella cosa scatta nella mente di una madre che uccide il proprio figlio?
"Ogni caso è diverso. Bisognerebbe conoscere la storia del soggetto in questione, se ha patologie mentali, se è in cura: certo, una mamma che sta bene non uccide il proprio figlio. E poi in questo caso sarebbe importante capire come è finito il matrimonio nel quale era nato quel figlio e perché è stato affidato in via esclusiva al padre. Elemento questo che potenzialmente può aver giocato un ruolo importante. Ma ripeto, non bisogna pensare che ci sia una causa sola: non è così semplice. Di certo quello che è emerge è la mancanza di un supporto psicologico. Quella donna si è sentita drammaticamente sola con un problema da lei elaborato, un problema che la sovrastava e che ha pensato di risolvere cancellando, ovverosia uccidendo, il proprio bambino".
Fino a negare se stessa l’omicidio, come nel caso di Cogne?
"Ci possono essere dei fenomeni dissociativi, per cancellare con la non coscienza il senso di colpa che altrimenti sarebbe devastante per una madre".
Perché non chiedere aiuto?
"Perché non è facile farlo. E invece bisognerebbe farlo. Una mamma un difficoltà deve poter dire non ce la faccio, ho bisogno di aiuto, e non è una vergogna. Deve poter parlare e trovare un supporto, trovare chi l’ascolta anche e soprattutto fuori dalla famiglia perché spesso i problemi sono nella famiglia. Amici quindi, ma anche e soprattutto psicologi, operatori di servizi sociali. Chi non ha risorse economiche per affidarsi ad uno psicologo o psicoterapeuta privato, dovrebbe rivolgersi ai servizi delle ASL, ai consultori, che saranno oberati di richieste e con risorse inadeguate, ma ci sono. Il mio invito alle donne che hanno problemi è: parlate, parlate con qualcuno".
Ma chi sta attorno a queste donne non si accorge che la situazione è al limite?
"Spesso in chi ti sta vicino c’è la tendenza a sottovalutare, o, peggio, a colpevolizzare, e la stessa persona che sta psicologicamente male, che è portatrice di un disagio serio e profondo, di solito nega di avere bisogno di aiuto. E così si arriva alla tragedia".
A.Farr.