Martedì 23 Aprile 2024

Quando Brusca cercò il perdono "La mafia è una fabbrica di morte"

In una video intervista del 2016, il boss chiese scusa ai parenti delle vittime. La sorella di Falcone: rivedere le leggi

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di Giovanni Rossi

"Una vittoria dello Stato", reclama il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho. "No, non è l’idea di giustizia che abbiamo in testa: chi ammazza deve stare in galera fino alla fine dei suoi giorni", è la linea del segretario della Lega Nord, Matteo Salvini. In mezzo a questi due pareri agli antipodi, altre decine di opinioni. "Un pugno nello stomaco", commenta il segretario del Pd, Enrico Letta. "Uno schiaffo morale", reagisce Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia. Durissima Maria Falcone: la sorella di Giovanni Falcone, saltato in aria 29 anni fa a Capaci con la moglie magistrato Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, chiede al Parlamento la "riforma dell’ergastolo ostativo" già sollecitata dalla Consulta e "una normativa giusta per evitare scarcerazioni e permessi a boss che mai hanno interrotto il loro perverso legame con l’associazione mafiosa".

La liberazione "per fine pena", dopo 25 anni dietro le sbarre, dell’ex capoclan di Cosa nostra Giovanni Brusca – protagonista invece secondo de Raho di "una collaborazione eccezionale" nei processi per "ricostruire le stragi del 1992 a Palermo e del 1993 a Roma, Firenze e Milano" – cruentizza le cicatrici dei familiari delle vittime e scatena una sincera sollevazione popolare nella quale anche la politica si tuffa (a rimorchio della cronaca). Mafia, morte, stragi, processi, pentimento, pena, sconto, liberazione, indignazione: in questo cerchio di efferatezza, spregiudicatezza e ingiustizia secondo il senso comune, la vicenda del capomafia di San Giuseppe Jato, autore di 150 omicidi e della strage di Capaci, deflagra con intensità prevedibile ma traiettorie inconsuete.

Due giorni dopo l’uscita dal carcere di Brusca – con nuova identità, stipendio e protezione di Stato per sé e per i propri cari – il dibattito trae rabbiosa linfa dalla riproposizione sul web di un’intervista esclusiva di 5 anni fa per i canali francesi Zek e Arte. Lo stragista pentito – travisato da passamontagna e occhiali – scandisce parole irrevocabili contro la mafia offrendo anche uno spaccato personale e familiare che tuttavia collide con il dolore assoluto di chi ha perso i propri cari per sua mano e di chi, da cittadino, ha condiviso i lutti di quegli anni di sangue. "Chiedo scusa principalmente a mio figlio e a mia moglie, che per causa mia hanno sofferto e stanno pagando anche indirettamente quelle che sono state le mie scelte di vita: prima da mafioso, poi da collaboratore di giustizia", dice Brusca nell’intervista, accettata – premette – perché è arrivato "il momento di metterci la faccia, anche se non posso per motivi di sicurezza".

Perché – è sempre il racconto di 5 anni fa – questo è il momento per "chiedere scusa, perdono, a tutti i familiari delle vittime a cui ho creato tanto dolore e dispiacere". Brusca rivendica diserzione dalla mafia e passaggio con lo Stato. "Purtroppo – aggiunge – nel nostro Paese chi collabora con la giustizia viene sempre denigrato, quando invece credo che sia una scelta di vita importantissima, morale, giudiziaria ma soprattutto umana. Perché consente di mettere fine a Cosa nostra, che io chiamo una catena e una fabbrica di morte: un’agonia continua".

Una dissociazione esplicita. Non per i familiari delle vittime che da sempre ritengono quel pentimento strumentale. Senza contare i sospetti sui tesori non emersi. "È chiaro che chi ha subito la perdita di un familiare continuerà a serbare nel proprio animo dolore e lontananza. Quindi le manifestazioni di amarezza sono più che legittime", riconosce de Raho, che resta invece risoluto sul ruolo dei collaboratori senza i quali sarebbe impensabile "scardinare le mafie". "I pentiti noi li processiamo e li condanniamo, sia pure a pene ridotte, mentre altrove (ad esempio negli Usa) possono godere di una completa immunità", avverte l’ex procuratore capo di Palermo, Giancarlo Caselli, sintetizzando i timori della magistratura all’idea di consegnare una materia così delicata agli umori delle piazze e della rete.