di Antonio Del Prete Parole, parole, parole. Alcune affermano, altre negano, altre ancora rivelano. Vladimir Putin torna a parlare in pubblico 49 giorni dopo lo sfondamento russo della frontiera ucraina. Ridimensiona i "nobili" obiettivi dell’"operazione militare speciale", orchestrata per "aiutare le persone nel Donbass perché le autorità di Kiev, spinte dall’Occidente, si sono rifiutate di rispettare gli accordi di Minsk". Insomma, l’"unità storica di russi e ucraini" professata l’estate scorsa e ribadita a fine febbraio non è più all’ordine del giorno. Il discorso pronunciato ieri al cosmodromo di Vostochny e le dichiarazioni rilasciate a seguire in conferenza stampa marcano la nuova linea rossa di Putin. Il Donbass. È lì che prende corpo la battaglia decisiva di una guerra iniziata otto anni fa. "Un genocidio impossibile da sopportare", per fermare il quale sarebbero state pianificate tutte le iniziative belliche. Comprese quelle nelle altre regioni del Paese, che avevano "l’obiettivo di bloccare le forze nemiche, distruggere le infrastrutture militari e creare le condizioni per un’azione più vigorosa" nelle terre russofone. Lo zar, dunque, si premura di negare la tesi della ritirata da Kiev. C’è poi l’altro fine, dichiarato più volte dall’inizio della campagna: "La Russia prende le misure per garantire la propria sicurezza". Dice Putin: "Non avevamo altra scelta e non c’è dubbio che andremo fino in fondo". Due negazioni in rapida successione che, bignami di psicologia alla mano, forse svelano la strategia difensiva di un leader che non è riuscito a piegare la realtà alla sua volontà. Ad ogni modo, aggiunge, a Kiev "lo sviluppo del nazismo è cresciuto in modo acuto e il nostro scontro con le forze del male era quindi inevitabile". Ai "nazisti ucraini" imputa pure lo stallo delle trattative di pace. "Hanno spinto i negoziati in un vicolo cieco, l’operazione militare andrà avanti finché non ci saranno dialoghi ...
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