Pupi Avati, la Riviera nel cuore. "Era la nostra California"

Il regista rievoca le vacanze riminesi: la casa in affitto e i mega pranzi in spiaggia "Dal treno qualcuno urlava ’il mareeee’. E lì cominciava l’avventura"

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Pupi Avati, il suo rapporto con il mare di Rimini?

"Risale al primo dopoguerra. Siamo stati tra le prime famiglie italiane a riconsiderare la possibilità di trascorrere le vacanze sulla Riviera Romagnola".

Cosa significava in quel tempo?

"Andare a Rimini per gli emiliani rappresentava una sorta di stato sociale: chi si poteva permettere le vacanze voleva dire automaticamente che aveva le possibilità economiche per farlo. Quel primo dopoguerra ha riordinato tutte le gerarchie, le appartenenze alle varie categorie sociali. E dunque, chi si poteva permettere la settimana al mare – per la nostra famiglia si parla di 2-3 mesi addirittura – era collocato nella categoria del benessere: andare a Rimini era come andare in California".

Se dovesse visualizzare la vacanza in un film...

"In parte l’ho fatto, con Festa di laurea. Mio padre affittava delle villette molto modeste, ma bisognava provvedere a tutto quello che mancava: a partire dall’arredamento".

Al limite dell’avventura.

"Prima della vacanza mia madre andava in piazza Aldrovandi, a Bologna, dove erano parcheggiati i furgoni dei trasportatori. Andare al mare significava traslocare dalla città alla Riviera la casa intera. Esigenza numero uno: i materassi".

Assenti nella villetta?

"No, ma c’era sempre un surplus di presenze durante l’estate: i parenti si autoinvitavano e dicevano rassicuranti ’tanto dormiamo per terra’. Alla sera i pavimenti della casa e i corridoi erano ingombri di materassi dove dormivano cugini o la zia di Sasso Marconi che ci aveva implorato ’prima di morire voglio vedere il mare’".

Altro rito: i pranzi o le cene, non a caso una scena ’ritornante’ in tanti suoi film.

"Come ho fatto vedere in Festa di laurea, spesso si mangiava in spiaggia. Si portavano tegami enormi e si cucinava lì. Fortunatamente la nostra famiglia non è mai arrivata a quei livelli... ci siamo mantenuti al di qua di una certa dignità".

Ovviamente non si parla di spiagge attrezzate...

"Si portava la tenda. Si configgeva un lungo bastone nella sabbia attorno al quale si collocava un grande tessuto, preferibilmente a righe, che sempre mia madre provvedeva ad acquistare in un negozio del centro di Bologna: la parola d’ordine era ’devo fare la tenda al mare’. Perché nel camion le famiglie caricavano anche l’intero arredo per la spiaggia".

Appunto, un’avventura.

"Un viaggio che iniziava alle 4 del mattino. Ma quando si arrivava ci si sbatteva subito in spiaggia e in acqua. Già dal giorno seguente eri abbrustolito: notti insonni per il dolore da ustioni solari. Ma c’era una foga, una voglia, un desiderio... venivamo dalla guerra, bisognava sfogarsi nell’eccesso".

A Rimini andavate...

"In treno. C’era sempre il momento in cui qualcuno gridava: ’il mareee’ e allora come pazzi furiosi ci si riversava ai finestrini per ammirarlo. Ancora oggi, quando sono in treno e si esce da una galleria e appare il mare mi ritrovo portato indietro a quella gioia: significava dare il via a un’estate meravigliosa fatta di tante opportunità".

Avrà vissuto la Riviera anche come musicista.

"Negli anni della jazz band, certo. Allora il mare diventò l’opportunità per conquistare le ragazze. Il look era dettato dal film con Gene Kelly Un americano a Parigi: scarpe e pantaloni bianchi, calze rosse. Poi i locali mitici: il Savioli, il Florida... C’erano i Platters, Buscaglione, Bindi, Tony Dallara. E si ballava, si ballava dappertutto".

Quindi il nome Rimini...

"Significa una grande festa".