Martedì 16 Aprile 2024

Province, chi non sparisce si rivede Ancora al voto per l’ente immortale

Rinnovate le cariche di 76 organismi. Né la legge Delrio né la riforma di Renzi sono riusciti a eliminarle

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Nel giorno delle nozze l’assessore Sara Volpi vota per la provincia di Viterbo

di Antonella Coppari

Un monumento al caos istituzionale e all’incoerenza della politica italiana dell’ultimo decennio. Si parla delle 76 Province in cui è divisa l’Italia a statuto ordinario: ieri sono state tutte coinvolte dal voto, 71 per il rinnovo dei consigli provinciali (850 eletti in tutto), 31 per l’elezione del presidente. Sia ben chiaro: non c’è nessuna ferita democratica se non sono stati coinvolti i cittadini. Si tratta di elezioni di secondo grado, scelgono i politici, ovvero sindaci e consiglieri comunali (68.499 la platea). E l’affluenza ha sfiorato l’80%.

In realtà, sarebbe più corretto dire che di questo ente se ne riparla dato che il tema aveva campeggiato sulle prime pagine nell’era Renzi. Ricordate? Dovevano essere abolite, o perlomeno declassate, togliendo loro lo status di ente costitutivo della Repubblica, poi il progetto fu mestamente affossato dall’esito del referendum.

Tutto come prima? Fino a un certo punto: sulle province era già intervenuto il governo Monti che le aveva azzoppate, cancellando l’elezione diretta e trasformandoli in organi formati da amministratori comunali che avrebbero dovuto svolgere le stesse funzioni ma gratis. Scelte che, nel 2014, la legge Delrio aveva stabilizzato: mossa propedeutica all’eliminazione definitiva tentata dal Matteo fiorentino. Alla fine, le Province resistono: "Sono previste dalla Costituzione, serve una legge dello stesso rango per cancellarle. Occorre tempo, e una maggioranza coesa", nota il politologo Salvatore Vassallo. Svolgono intanto due funzioni importanti: si occupano della rete viaria provinciale (130mila chilometri), ponti, viadotti e gallerie inclusi e gestiscono 7mila scuole superiori.

Dopo gli anni dell’austerity, con un decreto del 2019 è stata introdotta un’indennità di carica per il presidente (ruolo per cui concorrono solo i sindaci) determinata su quella del primo cittadino del Comune capoluogo (dai 4mila euro di quelli con meno di 50mila abitanti, ai 5.200 dei capoluoghi con più di 100mila abitanti: con le nuove norme raddoppieranno entro il 2024), non cumulabile. Solo rimborsi spese per i consiglieri.

A regolare il funzionamento di quello che resta uno dei principali enti locali, sembra sia stato un legislatore ebbro. I presidenti restano in carica 4 anni, mentre i consiglieri due. Non esiste più una giunta. È il presidente depositario della funzione esecutiva. Né meno problemi ci sono con le 10 città metropolitane (7mila euro lo stipendio del sindaco, che salirà a 13.800 nei prossimi 3 anni), equiparate alle Province: di default diventa sindaco metropolitano quello del Comune capoluogo, ma il 7 dicembre la Consulta ha dichiarato la procedura incostituzionale perché lede i diritti degli elettori degli altri Comuni.

"Costituiamo solo lo 0,9% del bilancio dello Stato: non siamo certo un “costo“ della politica", sottolineano dall’Upi (Unione province italiane). Ma il vento è cambiato: "Dal punto di vista operativo, le Province servono", sottolinea il renziano Ettore Rosato. Pure il governo Draghi ne riconosce le funzioni fondamentali. Nel maxiemendamento alla manovra le finanzia con 80 milioni per il 2022, 100 per il 23, così aumentando per diventare 600 milioni nel 2031. Sempre alle Province toccherà un ruolo centrale negli interventi di edilizia scolastica ai quali il Pnrr riserva 3,5 miliardi. Ma ci sono progetti nell’esecutivo per ridisegnare un sistema più tradizionale che comprende una giunta, un’indennità agli assessori e l’elezione classica, aperta ai cittadini. Nella speranza che il tentativo di semplificare non finisca anche questa volta per complicare ulteriormente.