Proviamo a occuparci della vita

Migration

Giuseppe

Catozzella

Ha ragione il presidente Mattarella quando dice che "il nostro Paese, che ha una lunga storia di emigrazione, deve aprire un’adeguata riflessione sulle cause". Indagarle, e poi agire, cambierebbe il volto dell’Italia. Non esiste infatti indice più esplicito per determinare la salute di un Paese che il computo di chi fugge e di chi resta. L’Italia è malata cronica: l’anno scorso ha perso 274mila residenti, a vivere fuori sono ormai 6 milioni di italiani, molti più degli stranieri arrivati, sei su dieci dei quali dichiarano che se ne andranno. È molto più facile addossare le colpe delle "cause" ai migranti bloccati nei porti che farsene carico. C’è poi una proiezione scioccante dell’Onu: da 59,6 milioni di abitanti arriveremo a 36 milioni alla fine del secolo. Al di là della fiaba del Bel Paese siamo un posto da cui si fugge, in cui non si riesce a progettare un futuro. Accettare questa fotografia è l’unico modo per cambiarla.

Le cause, invoca Mattarella. Ma se agire sulla mancanza di ascensore sociale e sul fatto che il poco lavoro che ancora c’è premia più facilmente l’appartenenza dell’abnegazione implicherebbe politiche strutturali a lunghissimo respiro, più immediato sarebbe agire sulla bassissima natalità. Potremmo copiare i Paesi in cui fuggiamo: smettere di disinteressarsi di chi muove i primi passi nello studio, nel lavoro, di chi crea una famiglia. Nascita, istruzione, lavoro, famiglia: la chiamiamo vita. Investimenti sull’assistenza per l’infanzia, su una migliore organizzazione negli asili nido, un’attenzione ai congedi di maternità e a quelli di paternità, un aiuto alle politiche aziendali per un part time scelto e reversibile. Smettere di considerare l’avere dei figli un costo privato e fare come in altri Paesi: vedere chi nasce come un valore collettivo su cui la società ha convenienza a investire.