"Adesso attacco e comincio a divertirmi io. Mi sto curando, faccio ogni giorno 4-5 chilometri a piedi, cerco di non ingrassare perché li devo veder morire tutti. Lo dico con odio. Vuole i nomi?". Li vorrebbe fare? "No, scherzo". Voglia ne avrebbe eccome dopo 17 anni sulla graticola, prima dell’assoluzione tombale in Cassazione dal processo Trattativa Stato-mafia. Mario Mori è un prefetto ma per tutti è il generale. Già comandante del Ros e direttore di Servizi segreti civili sceglie l’Isola del Libro al Trasimeno, in Umbria per parlare pubblicamente, insieme al già procuratore generale Fausto Cardella, dopo l’assoluzione del 23 aprile dall’accusa di aver tramato con i mafiosi per minacciare lo Stato.
La Cassazione l’ha assolta "perché il fatto non sussiste", in Appello la sua iniziativa era stata ritenuta improvvida. Si aspetta una riabilitazione completa?
"Mi aspetto che la sentenza metta in risalto cosa ho fatto, sì di essere riabilitato, da chi mi ha attaccato non mi aspetto niente. È povera gente".
Passo indietro. Di Trattativa parlò lei stesso alla Corte d’assise di Firenze che indagava sulle bombe nel continente nel ’98. Come andò?
"Usai io quella parola, avrei potuto dire relazione ma quando parlai con Vito Ciancimino sapevamo entrambi che io chiedevo qualcosa a lui e lui voleva qualcosa in cambio: era una trattativa".
Era un momento difficile...
"Gli dissi: ‘Signor Ciancimino così è un muro contro muro’ ma lo trattai da pari perché non potevamo permetterci di fare gli sbruffoni. A quel tempo avevano vinto loro: era morto Falcone, era morto Borsellino, erano morti i migliori di noi. Stavamo sotto ed eravamo in difficoltà, inutile negarlo e io che comadavo il reparto operativo più importante d’Italia non avevo avuto un’indicazione da nessuno dei miei superiori, dai ministri. Erano tutti terrorizzati, nascosti sotto le scrivanie aspettando che passasse la piena".
Che sperava di ottenere?
"Io da Ciancimino speravo in qualche informazione per arricchire la mia capacità informativa e svilupparla. E invece capì che era in contatto quando mi disse ‘Ho parlato con chi di dovere’ e mi chiese cosa offrivamo in cambio. La mia risposta era molto facile. ‘Se loro si consegnano trattiamo bene loro e le loro famiglie’. Ciancimino era sulla poltrona, sbattè le mani sulle ginocchia, si alzò. ‘Voi mi volete morto, anzi volete morire anche voi’. Ci cacciò di casa ma sapevo che sarebbe tornato e forse se non fosse stato arrestato ci avrebbe anche fatto prendere Riina".
L’avete arrestato lo stesso. Trent’anni dopo il Ros ha preso Matteo Messina Denaro e le perquisizioni dei covi sono state in diretta. Ci ha letto una riabilitazione rispetto alla polemica sulla casa di Riina?
"L’ho pensato anche io. Le circostanze che avevano preceduto l’arresto di Messina Denaro l’hanno quasi imposto ma dal punto di vista tecnico-professionale quello di esibire queste perquisizioni è una sciocchezza. Le rendo pubbliche quando avrei potute gestire diversamente".
Ma voi non l’avete fatto, eppure Riina fu trovato con i pizzini in tasca…
"Non era il covo ma l’abitazione dove viveva la moglie. La decisione è stata presa dai magistrati con la polizia giudiziaria accettando il rischio che andassero perse informazioni importanti".
Chi era Messina Denaro?
"All’epoca era un colonnello, un operativo. È diventato un ’mito’ quando sono venuti meno gli altri. Io penso che abbiamo perso troppo tempo per prenderlo".
E perché non è stato preso?
"La mafia è un’organizzazione criminale ma è anche un problema subculturale radicato, che è frutto di una storia che ha prodotto questo fenomeno".
C’è un successore?
"La mafia è morta".
Lei ha scritto un libro in uscita: Mafia e appalti. Cos’è?
"È la storia della mia vita professionale. Finché avrò un giorno di vita, lo presenterò in tutta Italia, mi toglierò tanti sassolini dalle scarpe e chiederò conto di tutti gli atti avvenuti tra la morte di Falcone e Borsellino. Sono agghiaccianti".