Giovedì 25 Aprile 2024

Primavera di Praga, il Muro e Gorby La voce italiana dalla Cortina di ferro

Morto a 90 anni lo storico corrispondente Rai da Mosca: raccontò la vita nei paesi comunisti . L’amico-collega: "Quel giorno che a Danzica mi tradusse il discorso di Papa Wojtyla contro l’Urss"

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di Roberto

Giardina

La voce di Demetrio Volcic era inconfondibile, profonda, calda, e sfumata. Era la voce della Mitteleuropa. Corrispondente della radio e della tv, ha scritto diversi libri, in cui spiega da testimone gli eventi del nostro tempo, dal dopoguerra all´inizio del XXI secolo. Possedeva un talento straordinario nel raccontare a voce quel che aveva vissuto e lo spiegava con parole semplici, mai con il tono da maestro. Contava non solo quel che diceva, ma come lo diceva. Nella sua voce si mescolavano le anime diverse di popoli che non conosciamo mai fino in fondo, anche se sono nostri vicini. La sua Slovenia è grande o piccola come la Sicilia, si affaccia sull´Adriatico innanzi a Trieste e confina con l´Austria, con l´Ungheria, con la Croazia. È uno dei cuori della nostra Europa.

Demetrio era nato in una terra di confine. Oggi che il globalimo è di moda, molti sostengono che i confini non esistono o andrebbero cancellati. Ma i confini sono anche un punto di incontro, per capirsi, non una linea di scontro tra stranieri. Sempre se si capisce chi vive dall´altra parte. Demetrio conosceva sei lingue e nella sua voce si mischiavano sei accenti, le lingue servono a capire chi le parla. E lui era un interprete di anime, non di parole, quando sono importanti sono quasi sempre intraducibili. Ascoltavo a Danzica nella trasmissione della tv polacca l’arringa di papa Wotyla, dritto su un altare a forma di prua. Una traduzione in italiano, simultanea ma incomprensibile, le parole si susseguivano senza un nesso. Demetrio si mise al mio fianco a tradurre la traduzione per me e a farmi capire la sfida del Pontefice all´Urss, che aveva oppresso la sua patria.

Volcic conosceva il polacco, il russo, il céco, il tedesco, lo sloveno, oltre all´italiano che coloriva con il suo talento, in cui si avvertiva una sfumatura della lingua di Trieste, la città della madre e dove era andato a scuola. Era a Varsavia quando Willy Brandt cadde in ginocchio nel ghetto. Era a Praga quando vi tornò Gorbaciov a promettere che la tragedia del ´68, l´invasione dell´Armata rossa che spense la primavera di Dubcek non si sarebbe più ripetuta, era a Mosca a raccontare la fine dell´impero sovietico. E lui aveva raccolto le confidenze di Gorbaciov e di Dubcek.

Dopo la caduta del muro, ci trovammo a cena a Berlino con Markus Wolf, che era stato il capo del controspionaggio della Germania comunista, il maestro della guerra delle spie nella guerra fredda. Tra loro ogni tanto finivano per conversare in russo. "Non ci siamo scambiati segreti, che non esistono, mi disse come per scusarsi, abbiamo parlato di ricordi, di emozioni, e ci siamo sorpresi a parlare russo". Avrebbero dovuto chiedere a Volcic di leggere ad alta voce i suoi libri e conservare le incisioni. Sarebbe tornato a emergere quel che la parola scritta non può rendere,