Giovedì 25 Aprile 2024

Pregi inattesi e ostacoli imprevisti

Simone

Arminio

Benedetto sia questo maledetto smart working. Oppure viceversa. E il tema è proprio questo. Del lavoro agile – che dopo un uso massiccio e deregolamentato tornerà da oggi nell’alveo degli accordi aziendali – discettavamo da anni, prima della pandemia, adottando più o meno le stesse fascinazioni e cautele che si usano per temi come: potranno i robot sostituire l’uomo? Mangeremo davvero gli insetti? Argomenti futuribili, insomma, su cui ciascuno azzarda ipotesi lavorando solo di pancia e teoremi. Poi è successo che il Covid ci ha chiusi in casa, e però lavorare a un certo punto si doveva. Dunque tutti, bene o male, abbiamo sperimentato lo smart working. Da un giorno all’altro ci siamo ritrovati in tinello o in camera da letto, con uno smartphone e un portatile in mano, a cercare di riprodurre in vitro il nostro ufficio. Com’è andata davvero è un giudizio soggettivo, e una sintesi lucida sarà possibile solo col tempo e con l’incrocio scientifico dei dati. A naso tutti – contrari ed entusiasti – abbiamo trovato nel lavoro agile pregi inattesi e ostacoli imprevisti. Qualcuno più pigro ha scoperto che la tecnologia in fondo è comoda, bastava solo che qualcuno ci obbligasse ad approcciarla. Qualche altro, fanatico del digitale, ha scoperto invece che una scrivania in ufficio in fondo è più comoda dello stare chiusi nello sgabuzzino delle scope, mentre fuori impazza la vita familiare. O che lo scambio di vedute con un collega alla macchinetta del caffè potrebbe valere la pena di vestirsi e uscire di casa. Ora che l’emergenza è finita, tutto questo servirà al legislatore e agli uffici risorse umane per tirare le somme e regolamentare una volta per tutte lo smart working. Sul giudizio di fondo, in attesa dei dettagli, può servire ciò che Massimo Troisi diceva del successo, e cioè che non è vero che cambia i caratteri delle persone. Ne è solo un amplificatore: se eri imbecille, lo sarai di più. Ma per fortuna vale anche il viceversa.