Giovedì 18 Aprile 2024

Buffa: "Potevo fare l’avvocato, ho scelto la tv. Racconto lo sport che entra nella Storia"

Dalle telecronache notturne di basket alle narrazioni: "Riva e De André, il pallone e la musica, le vite parallele di due amici fragili". Ha fatto conoscere campioni di ogni epoca, dentro e fuori dal campo

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"A volte mi chiedo come fra vent’anni sarà possibile raccontare gli eroi dello sport di oggi. Sono così isolati dalla vita vera..."

Federico Buffa un giorno finirà sulla Treccani come il ‘Whatever it takes’ di Mario Draghi. Questo avvocato milanese, classe 1959, in effetti ha inventato un modo nuovo di narrare le grandi storie figlie dell’agonismo. Spopola su Sky e prima del Covid riempiva i teatri con le sue affabulazioni dal vivo.

"Grazie ma non esageriamo – sospira il diretto interessato –. In fondo sono solo uno che ha trovato la maniera di scampare al mestiere dell’avvocato".

Meglio essere l’Indiana Jones della archeologia sportiva che un Perry Mason qualsiasi.

"Ma quale Perry Mason! Ho fatto il liceo classico e poi mi sono laureato in giurisprudenza. Mi occupavo di diritto internazionale, di contratti".

Che barba e che noia.

"Debbo tanto al professor Ziccardi, il mio mentore universitario. Però non ero fatto per codici e pandette. Francamente, avevo sempre la testa nel canestro".

Il grande basket delle Scarpette Rosse a Milano.

"Ah, no. Massimo rispetto per l’Olimpia e la sua leggenda, ma io sono abituato a stare con i deboli. Cioè, nel calcio sono milanista ma ero a San Siro per la mitica sconfitta in B contro la Cavese, l’epopea berlusconiana è stata un risarcimento. Quindi sotto canestro ero tifoso della seconda squadra meneghina. Si chiamava All’Onestà, a dodici anni mi portano alla partita e mi innamoro dell’asso americano, Chuck Jura. Un mito. Mai dimenticato".

E tanti saluti alla toga.

"Ho esercitato per quattro anni con la testa in America. Nel 1994 Telepiù, l’antenata di Sky, mi offre di fare la seconda voce per le telecronache della Ncaa, il campionato del basket universitario".

Quello adorato da Barack Obama.

"Esatto. E senza buttarla in politica fammi segnalare quello che io considero uno dei limiti più grandi della nostra Italia".

Eh, ne abbiamo tanti!

"Sì, ma io ho sempre trovato incomprensibile la rinuncia dello Stato a fare dello sport una materia scolastica. Non è stato mai valorizzato il senso sociale dello sport. Che non è soltanto competizione".

Forse dipende dallo snobismo salottiero nei confronti della cultura popolare.

"Sicuramente! Anche a livello letterario c’è sempre stata una disattenzione superficiale, una sottovalutazione del racconto sportivo, liquidato come roba di serie B. Sai cosa mi raccontò una volta Gianni Clerici, il maestro delle cronache del tennis?"

Sentiamo.

"Il modo in cui la cultura alta, chiamiamola così, umiliò Gianni Brera perché si era permesso di scrivere romanzi. Umberto Eco lo prese in giro, invitando Brera a restarsene nel suo orticello, a scrivere di pallone".

Il pregiudizio degli intellettuali.

"Una cosa molto ingiusta. Comunque forse qualcosa sta cambiando, nella percezione collettiva".

Dicono sia merito di Buffa, che è diventato un brand.

"No, no. Io sono un semplice narratore, nemmeno mi piace l’etichetta di story teller. Facevo le mie telecronache, dal 1997 anche quelle della Nba, ero la spalla di Flavio Tranquillo. Mi pagavano a gettone, ero una partita Iva e mi andava bene così".

Finché?

Paola Ellisse, una bravissima collega, mi chiede se voglio registrare qualcosa per riempire gli intervalli delle partite. Una cosa clandestina, da trasmettere nel cuore della notte. Titolo: la Nba dei nostri padri".

Una miniera di ricordi.

"Ah, io ho questa benedetta passione per la memoria, sono molto vintage in tutto, pensa cheuna volta sono pure andato in vacanza in Corea del Nord".

Dove notoriamente non impera la modernità.

"Appunto. A parte gli scherzi, quelle cosine lì sul basket di una volta non vanno male e allora a Sky il direttore dello sport, Federico Ferri, mi invita a provarci con il calcio".

Una pacchia.

"Beh, propongo una cosa sulla infanzia di Maradona. Poiché bisognava usare immagini in biancoe nero, in una tv coloratissima come Sky, davo per scontata la bocciatura, era un ossimoro".

Invece è arrivata la laurea.

"Mi piace quello che faccio. Ma è un lavoro di squadra e fidati che non è una frase fatta. Dietro ogni racconto c’è l’impegno di tante persone. Memoria significa ricerca, scavo, documentazione. È uno sforzo collettivo".

Quale personaggio tra i tanti hai amato di più?

"Muhammad Ali. Unico. Irripetibile. E non parlo solo del pugile. Ali significa Vietnam, la contestazione, la lotta al razzismo".

Beh, anche adesso tanti campioni si sono uniti alla protesta per il caso Floyd, penso a Lewis Hamilton o a LeBron James.

"Sì ma si tratta di una eccezione, per una vicenda che ha una eco planetaria. Ma la verità è che gli assi di oggi non osano mai intervenire su argomenti di conflitto sociale, come Ali fece a testa alta. Conosci l’opinione di Cristiano Ronaldo sull’euro o quella di Messi sulla questione catalana? Niente, zero assoluto".

Sono idoli lontanissimi.

"E infatti ormai è un trend irreversibile. Domina l’ossessione per il culto dell’immagine. È tutto controllato, i manager e gli sponsor ti fanno vedere solo quello che fa comodo a loro".

È la maledizione dei social, amico mio.

"Beh, ormai twitta pure Papa Francesco, mica solo Trump!".

E quindi cosa racconterà Buffa tra vent’anni?

"Ci penserò, nel frattempo per il 2021 spero di poter tornare nei teatri con la storia parallela di Gigi Riva e Fabrizio De Andrè, due amici fragili".

Beh, almeno loro erano veri e non di plastica.

"Per fortuna".