Pordenone: coppia d'oro, la pista dell'invidia. "Lite per il concorso da finanzieri"

Delitto di Pordenone, nega l’indagato, commilitone di Trifone. L’arma nel lago è quella del delitto

Le due vittime, Trifone Ragone e Teresa Costanza

Le due vittime, Trifone Ragone e Teresa Costanza

Napoli, 27 settembre 2015 - Il giallo di Pordenone è a una svolta dopo aver scoperto che c’è un indagato per duplice omicidio e porto abusivo di armi. È stata infatti trovata, sempre nel laghetto vicino al Palasport, anche la pistola del delitto: domani altri esami sull’arma. Sospettato di essere l’assassino dei fidanzati Trifone Ragone (28 anni) e Teresa Costanza (30) è un caporalmaggiore e loro amico, Giosuè Ruotolo, 26 anni, detto Giò, originario di Somma Vesuviana, Napoli.

L’omicidio, nel parcheggio del palazzetto dello sport di Pordenone il 17 marzo – i due fidanzati furono trucidati nella loro auto a colpi di calibro 7,65, un’arma vecchia tanto da essere stata definita la "pistola del nonno" – resta senza un movente convincente (tra le piste ci sarebbe quella di un concorso per il ‘transito’ nella Guardia di Finanza che sarebbe stato vissuto come rabbiosa sfida tra i due commilitoni e che potrebbe aver originato il fatale alterco e l’assassinio). Il militare indagato – tornato giorni fa al paese natio, a casa dei genitori – viveva nello stesso appartamento di Ragone. Il loro rapporto era nato sotto le armi: erano in ferma volontaria e si erano conosciuti nella caserma di Cordenons del 132° Reggimento Carri. Con altri due commilitoni (tutti della terza brigata Ariete) avevano affittato un appartamento in un condominio a pochi passi dalla prefettura. I quattro avevano condiviso quelle stanze fino a maggio 2014, quando Ragone si era trasferito in un monolocale con Teresa.   Chi è Giosué Ruotolo? A Somma Vesuviana lo descrivono come un ragazzo tranquillo, educato e perbene. La mamma di Giosuè è insegnante, il papà impiegato in pensione: lui, appassionato di computer, non ha mai dato grattacapi e intreccia da otto anni una storia d’amore con una bella ragazza sommese, Rosaria, prossima alla laurea in Legge. "Siamo sbalorditi", dicono nel paese che pure ha conosciuto l’orrore di un’altra vicenda, quella di Melania Rea (di Somma) e di Salvatore Parolisi (anche lui militare). Per ribadire l’estraneità alle accuse, Giò a TgCom dichiara: "Non c’entro, ma è giusto che indaghino, così verranno eliminati i dubbi. Io sono il primo a chiederlo. Io e Trifone eravamo amici. Ho portato la bara? Sì, mi sembrava giusto e doveroso". Sulla mancanza di alibi: "Non vuol dire che sono colpevole".

Anche sui rapporti con il collega ucciso è netto: "Andavamo d’accordo, ci vedevamo in caserma, uscivamo insieme qualche volta. Ma il nostro non era un rapporto invasivo. Teresa? La conoscevo appena". Infine un giudizio sul duplice delitto: "Un’azione del genere è un’atrocità che un essere umano non può fare". Restano le convinzioni dei pm che puntano sul suo alibi debole. Giò ha riferito ai pm che quella sera era da solo a casa a giocare a Playstation. Ma sembra che la cella del suo telefono sia stata agganciata nei pressi del palasport e del laghetto, dove i sub hanno ripescato arma e caricatore, e sul quale sperano di trovare tracce di dna.