Saman, pochi controlli sulle famiglie-clan. Lo Stato interviene sempre tardi

Nuclei impenetrabili, non riconoscono l’autorità italiana. È più facile togliere un figlio a genitori che si separano

I parenti di Saman si dirigono verso i campi con un badile

I parenti di Saman si dirigono verso i campi con un badile

In un mondo in cui con un clic si spostano milioni di euro in versione bitcoin da Hong Kong a New York e ritorno, ci sono realtà familiari dove la penombra prevale sulla luce, dove l’assistenza e la burocrazia sociale nonostante tutti gli sforzi e le certezze amministrative talvolta non riescono a penetrare per capire e misurare la profondità del disagio. È lo scenario triste e tragico nel quale si è perduta per sempre Saman Abbas, la ragazzina pachistana che sognava la libertà fatta di un fidanzato scelto da lei e non dal matrimonio combinato dal clan familiare, incorniciata dai jeans con gli strappi sul ginocchio, dal rossetto e le Sneakers ai piedi.

Preistoria di oggi. Anche se non ci sono dolose responsabilità singole nella rete di welfare che in qualche modo aveva individuato la paura e il pericolo che si leggevano nello sguardo di questa adolescente, dobbiamo chiederci dove la società, la nostra società, ha fallito e rischia di fallire in altri casi analoghi (sono tanti) non per immobilità, ma per mancanza di comprensione e di intervento verso una immigrazione che solo apparentemente e solo in parte è integrata.

Dietro una famiglia che lavora, che sgobba nei campi dieci ore al giorno si può nascondere l’orrore di una consuetudine arcaica e tribale che schiavizza i figli in nome di principi che la cultura occidentale non può tollerare. Il filo di rasoio su cui ha camminato la ragazzina con gli occhi neri come il carbone e vivaci come l’energia di chi ha la vita davanti, era stato intravisto, scrutato, erano stati lanciati allarmi. Eppure è finita come sappiamo.

Troppo tardi, forse, troppo blandamente si è tentato di entrare nella grotta chiusa di una famiglia che uccidendo Saman, pur soffrendo, pur straziata, ha creduto semplicemente di seguire una strada tracciata in parte da scelte millenarie del Pakistan e dell’Islam più arretrati dove la donna non conta nulla o quasi nella società patriarcale. Un giudice esperto e di lungo corso che per anni ha lavorato al Tribunale dei minori ci spiega che questo tipo di clan familiare non tollera intrusioni, riconosce solo parzialmente le leggi e le regole di comportamento occidentali. L’ondata di immigrazione degli ultimi decenni ha cambiato il nostro tessuto sociale e forse per alcuni aspetti non siamo stati, e non siamo tuttora in grado, di affrontare i nuovi scenari.

La rete dell’assistenza sociale qui sapeva, aveva avvertito del pericolo la ragazzina nel frattempo diventata maggiorenne dopo due fughe dalla comunità, i carabinieri avevano annusato che qualcosa non andava.

Eppure Saman ha pagato con la vita. E forse allora qualcosa non ha funzionato. Ecco perché il sistema di monitoraggio di queste comunità chiuse come casseforti deve cambiare. È più facile togliere il figlio a due genitori che si separano o vivono una turbolenza di coppia che entrare nel meccanismo recalcitrante di famiglie come quelle del padre-padrone Shabbar Abbas e dello zio-padrone Danish Hasnain. O come le famiglie di ‘ndrangheta e camorra, dove gli adolescenti già a 15 anni frequentano un master di malavita. E allora si spalancano scenari come a Bibbiano, sempre Reggio Emilia, dove i servizi sociali deviati toglievano bambini a padri e madri come voltare pagina di un libro e senza controllo con l’appoggio di un circuito di psicologi border line.

Cambiamolo allora questo sistema di controllo dove è necessario. Solo in Emilia Romagna al Tribunale dei minori arrivano un centinaio di segnalazioni l’anno relative a famiglie straniere impermeabili al cambiamento che usano metodi da ’cosa loro’ nella gestione dei figli, ma che da noi non possono essere tollerati. L’intervento severo, fatto di maggiori controlli, di fari accesi senza paura deve arrivare rapidamente. Spesso i soprusi e le violenze si formano a monte. Dunque bisogna agire prima del Tribunale, quando si fiuta un disagio che può diventare fatale. Il pregiudizio strisciante e diffuso è che se l’intervento diventa più energico verso certe comunità straniere allora si sfiora il razzismo.

Balle spaziali. Non tutte le etnie sono uguali, non tutte le culture hanno gli stessi punti di riferimento. Multiculturalità non è necessariamente multilegalità. Per aiutare e controllare certe comunità arretrate serve personale che sia formato, che sappia coniugare passione e competenza specifica. Non può essere sempre la stessa assistente sociale che, pure con grande impegno, si occupa di anziani fragili e del muro di omertà come quello del mondo tribale di Saman Abbas.