Martedì 23 Aprile 2024

Piazza Fontana spiegata ai ragazzi di oggi

Finiva l’infanzia beata dei giovani degli anni Sessanta. E cominciava il crollo della fiducia degli italiani nelle istituzioni

L’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura devastato dalla bomba neofascista

L’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura devastato dalla bomba neofascista

Milano, 12 dicembre 2019 - Il 12 dicembre 1969 era un venerdì. Milano era bellissima, con le sue nebbie e le sue luminarie di Natale. I milanesi affollavano la Rinascente, l’Upim e tutti i negozi in cerca di regali. Ma c’era qualcosa di freddo nell’aria, e non era l’inverno. Il clima s’era da qualche tempo guastato. L’autunno era stato turbolento, per via di tante manifestazioni di piazza. Il 19 novembre, nel corso di scontri in via Larga, era morto l’agente di polizia Antonio Annarumma, 22 anni. Il 7 dicembre la prima della Scala era stata contestata, come l’anno prima. Alle 16,37 una bomba esplose all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana, giusto dietro al Duomo. 

Morirono diciassette persone. Altre ottanta rimasero ferite: alcune, orrendamente mutilate. Avevo undici anni e ho un ricordo nitido di quei giorni. Mio padre era appena passato di lì e i funerali delle vittime li celebrò l’arcivescovo Giovanni Colombo, che era un cugino di mia nonna. Finiva l’infanzia beata di noi bambini degli anni Sessanta, e cominciava la stagione della paura. Chi mise quella bomba, questo voleva: che gli italiani cominciassero ad avere paura.

La polizia di Milano non sapeva dove mettere le mani. Il terrorismo era un fenomeno nuovo e sconosciuto. In questura erano abituati a fronteggiare la malavita ordinaria, la vecchia “mala” cantata da Enzo Jannacci e Ornella Vanoni: un mondo tutto sommato quasi romantico, nel quale la polizia aveva i suoi informatori e perfino qualche amico. Ma dei neonati gruppi dell’estremismo politico, gli inquirenti sapevano poco o nulla. Le indagini furono affidate a un commissario che aveva solo 32 anni: Luigi Calabresi.

Nelle ore successive alla strage gli agenti fecero una retata di estremisti. Non è vero che andarono a prendere solo gli anarchici: pescarono, gettando reti un po’ a casaccio, nell’estrema sinistra e nell’estrema destra. Ma è vero che i sospetti principali si indirizzarono sugli anarchici, in particolare su Pietro Valpreda, un ballerino che diceva (o millantava) di ispirarsi a Ravachol, bombarolo parigino di fine Ottocento. Valpreda era stato riconosciuto da un tassista, Cornelio Rolandi, che sosteneva di averlo accompagnato alla banca di piazza Fontana, vedendolo entrare con una borsa ed uscire senza.

Gli uffici della questura di via Fatebenefratelli si riempirono in poche ore di varia umanità da interrogare. Subito dopo lo scoppio della bomba, Calabresi in persona era andato a prendere un anarchico con cui aveva da qualche tempo contatti, anche buoni, tanto che i due si erano appena scambiati i regali di Natale. Era Giuseppe Pinelli detto Pino, un ferroviere, capo del circolo del Ponte della Ghisolfa di via Scaldasole. Calabresi sapeva che Pinelli aveva cacciato dal suo circolo Valpreda, che considerava una testa calda; e voleva sentire che cosa sapesse di lui. Ma la notte fra il 15 e il 16 Pinelli morì, precipitando dalla finestra dell’ufficio al quarto piano dov’era interrogato senza sosta.

Ma ”come” precipitò? La sinistra parlò subito di omicidio. Io non credo che Pinelli sia stato buttato giù. Intanto, perché non voglio e non posso credere che la polizia ammazzi un testimone. E poi perché, se anche lo volesse ammazzare, non lo butterebbe giù dalla finestra di casa propria, con tutti i giornalisti in cortile (tanto che il primo a soccorrere Pinelli, ancora vivo, fu Aldo Palumbo, un cronista dell’Unità). La polizia parlò di suicidio. Il questore di Milano, Marcello Guida, convocò una conferenza stampa e disse che Pinelli era fortemente indiziato e che il suo gesto equivaleva a una confessione. Calabresi lo corresse subito, dicendo che Pinelli non era indiziato, e che si era ucciso – disperato – perché lui gli aveva fatto credere che Valpreda aveva confessato la strage. Anni dopo un giudice, Gerardo D’Ambrosio, chiuse l’inchiesta dicendo che Pinelli era caduto in seguito a un malore, mentre era affacciato alla finestra.

Quel che è certo è che in questura era comunque accaduto qualcosa di molto grave. Ma è altrettanto certo che Luigi Calabresi – un poliziotto corretto e tutt’altro che reazionario – non era nell’ufficio nel quale si trovava Pinelli al momento della caduta. Eppure fu contro di lui che si scatenò una campagna di stampa e di piazza che armerà poi, tre anni dopo, le mani di estremisti di Lotta Continua che lo ammazzarono mentre usciva di casa per andare al lavoro.

Ma chi aveva messo la bomba? Anni di indagini e di processi portarono, se non a punire i colpevoli della strage, almeno ad accertarne la matrice. Estremisti di destra, coperti e anzi mandati da settori dei servizi segreti dello Stato, avevano architettato il massacro per scaricare la colpa sugli anarchici e favorire uno spostamento verso destra dell’opinione pubblica: magari in vista di un golpe.

Vorrei far capire ai ragazzi – insomma a chi allora non c’era – perché quella strage ha cambiato la storia d’Italia. L’ha cambiata per almeno due motivi. Il primo è che fu l’inizio di una guerra civile. Piazza Fontana fu la prima di una lunga serie di stragi nere, alle quali si affiancò un terrorismo di sinistra – in particolare quello delle Brigate Rosse – che sognava un’altra cupa dittatura, quella tipica dei regimi comunisti.

Ma il secondo motivo, quello foriero di più durature conseguenze, è che da quel giorno crollò la fiducia degli italiani nelle istituzioni. Eravamo cresciuti tutti con i film americani che dividevano l’umanità in buoni e cattivi, e i buoni erano sempre lo Stato: la polizia, la magistratura, perfino gli agenti segreti. Sapere che anche i buoni potevano essere cattivi fu uno choc. Lo fu per la stampa, che ebbe prima il merito di mettere in discussione le verità ufficiali, e poi la colpa di dubitare di tutto, fino a negare per anni l’esistenza (anche) di un terrorismo rosso. E lo fu per tutti gli italiani, nei quali venne inoculato allora il virus della sfiducia preventiva su chiunque eserciti un potere.

Ecco ragazzi: questa è, sommariamente, la storia di piazza Fontana. E anche voi, che non c’eravate, siete un po’ figli di questa storia.