Piatti irripetibili E infatti nessuno se li ricorda

Giorgio

Comaschi

Qui si parla di piatti "irripetibili". Ma non per la loro bontà. Esempio: ristorante di una certa classe, aprite il menù, lo leggete, poi ordinate: "Pacchettini di paccheri ripieni alla Certosa, patate e mortadella in un fondo di pesto ligure di Ventimiglia". Di secondo: "Magret de canard, chutney di rabarbaro, gel di sauternes in casseruola di Abbiategrasso". Il giorno dopo incontrate un amico che vi chiede cosa avete mangiato. Cosa rispondete? Niente. Sguardo nel vuoto e silenzio. Ma non è che ci si dimentichi del nome del piatto il giorno dopo. No. Subito, già al ristorante. Dopo aver ordinato, passano quei 10-15 minuti necessari e vi arriva il piatto. Guardando la composizione, che sembra un’installazione di una mostra di arte contemporanea, voi dite: "Cos’ho preso pure io?". Per forza. Sono piatti che si cancellano da soli in 10 minuti, forse meno. Chi è in grado di dire, all’arrivo del piatto ordinato poco prima: "Ecco gli spaghetti grossi Rummo, pomodorini del piennolo vesuviano, pecorino stagionato Fior di Monte e basilico dell’orto di mia sorella Ines"? Nessuno ovviamente. Non riusciamo ad andare oltre a "Lasagne", "Tortellini in brodo" o "Cotoletta alla milanese".

La perversa ricerca degli chef porta a definizioni ai limiti dell’umano. Quindi si viene allettati dalla "Zuppa di granchio con latte di cocco e polpette di broccoli cotti nel tegame di nonna Iole con le caccole di sua nipote", per poi non riuscire nemmeno a pronunciare la parola "zuppa" che è all’inizio del delirio. "Cos’è quello?", ti chiede il vicino di tavolo. E tu con lo sguardo mesto: "Non lo so. Ma è molto buono". Sarebbe bello avere lì il menù per ricordare qualcosa, ma ti viene sottratto abilmente dopo la comanda. E allora, per finire: "I nostri dolci al cucchiaio di Imperia, cioccolato di Santa Madre delle Vergini, con i nostri piatti in ceramica uzbeka, e il nostro conto finale da rizzare i vostri capelli". Quello di solito se lo ricordano quasi tutti. Ma vè.