Perseguitati dal fantasma di Srebrenica

Cresciuti in tempo di pace, scoprimmo la guerra non ancora maggiorenni, volgendo lo sguardo dall’altra parte dell’Adriatico. Sono passati 25 anni dall’eccidio di Srebrenica e i numeri, impietosi, sono lì a ricordare cosa è stato: 8.372 vittime (forse diecimila, secondo una contabilità della morte che suona ancora più inquietante), solo 6.670 scheletri (o ciò che è rimasto di loro, recuperati dalle fosse comuni) hanno trovato sepoltura nel sacrario di Potocari, il peggior massacro dal 1945. Srebrenica, in teoria, era una delle zone protette dall’Onu, un manipolo di caschi blu olandesi che non oppose resistenza all’avanzata degli squadroni della morte guidati dal generale Ratko Mladic e "ispirati" dallo psichiatra diventato presidente della repubblica serba di Bosnia, Radovan Karadzic, per annientare i musulmani di Bosnia.

Entrambi criminali di guerra, con qualche anno di ritardo, solo dopo che il sangue era stato sparso a concime per alimentare il turbonazionalismo. E con l’Europa che aveva voltato le spalle ai Balcani.

Una guerra che non veniva considerata tale, derubricata a guerra civile. Ma tutto ciò invece, succedeva nel cuore del Vecchio Continente, a qualche centinaio di chilometri dalle nostre coste. Venticinque anni dopo, l’Onu si cosparge il capo di cenere, lo fa col segretario generale, Antonio Guterres. Che ripete ciò che disse uno dei suoi predecessori, Kofi Annan, nel 1999: "Questo fallimento perseguiterà la nostra storia per sempre". E mentre si continua a parlare di riconciliazione, nel frattempo il massacro prima negato, poi riconosciuto, ora, in qualche sacca (non così nascosta di Serbia e Bosnia) è in qualche modo giustificato. C’è un documentario, del 2006, che s’intitola "Souvenir Srebrenica". Il “souvenir“ sono le parole dei sopravvissuti, soprattutto donne, aggrappate a una città fantasma. Un fantasma che da 25 anni perseguita l’Europa e le Nazioni Unite. Che, allora, assistettero quasi immobili alla mattanza.