Massi
uando guardai quelle foto qualcosa si spezzò". Le parole sono di Susan Sontag, intellettuale americana (1933-2004), nella sua raccolta di saggi “Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società“. Le immagini che lei vide per la prima volta da ragazzina erano quelle dei lager di Bergen-Belsen e Dachau. Non era una testimone diretta della Shoah, anche se in famiglia (è nata da due ebrei americani) di Olocausto si è sempre parlato. Ma di fronte a quelle immagini non può esserci distanza emotiva. Ed è quello che è successo anche alle generazioni successive, che sin da subito si sono imbattute, anche nel corso della propria formazione scolastica, in quelle stesse immagini nei libri di storia. Nel frattempo anche la produzione artistica si è allargata nel racconto dell’Olocausto. L’ha fatto in taluni casi, come in “Schlinder’s list“ (1993) di Steven Spielberg girato volutamente in bianco e nero, per divulgare l’esigenza di ricordare, non limitandola solo agli incontri coi superstiti dei lager nelle scuole, ma tirando fuori anche storie (nella Storia) dimenticate.
La Memoria (con la M maiuscola), istituzionalizzata con una giornata apposita, corre però sempre di più il rischio di serializzarsi, di normalizzarsi fino quasi a portare a una rimozione. Su questo pericolo, da anni, Liliana Segre si batte: "So, con pessimismo, ma anche con realismo, che nel giro di pochi anni la Shoah sarà una riga nei libri di storia". Poi però, nel 2023, le Stelle di David (come negli anni ’30) riappaiono sui muri di Parigi e in un’abitazione di Milano, la sezione ebraica del cimitero di Vienna viene incendiata e spuntano le svastiche. E anche quel "mai più" né sembra più scolpito nella pietra né, ripeterlo, sembra un rito stanco. Così la Memoria non è tanto un dovere ma l’essenza stessa del nostro vivere. Come Primo Levi scrisse in “Se questo è uomo“: "Meditate, che questo è stato".