Perché l’Iran ha così paura dei registi

Matteo

Massi

Perché i registi fanno così tanta paura alla teocrazia iraniana? Perché raccontano la realtà.

Ieri è stato arrestato – non una novità per lui, purtroppo – Jafar Panahi: è il terzo regista, in pochi giorni, che viene fermato. Il cinema iraniano in quest’ultimo ventennio, non senza difficoltà, è riuscito a uscire dal proprio Paese per invadere i festival internazionali. Panahi ha vinto il Leone d’Oro (2000) con Il cerchio e l’Orso d’oro (2015) con Taxi Teheran.

Ma il cinema iraniano – e non da oggi – continua a essere tacciato dal regime di corrompere i giovani, di occidentalizzarli. Questa tesi fu sostenuta da Khomeini in piena rivoluzione: era il 1979, impose il divieto di organizzare i festival e i registi della prima Nouvelle Vague iraniana finirono davanti alla Corte Islamica. Lo stesso ayatollah disse: "Non ci opponiamo al cinema, ma condanniamo il cattivo uso che si fa del cinema".

Da quel giorno le cose non sono cambiate quasi per nulla. C’è stata una seconda Nouvelle Vague, dopo che la prima era scappata all’estero, e ci sono stati registi come Abbas Kiarostami, venerato in Italia da Nanni Moretti, che è riuscito a collaborare col nostro Ermanno Olmi e Kean Loach in Tickets (2005). Ma la repressione non si è fermata. Basti pensare che Panahi (che di Kiarostami fu assistente), dopo essere stato arrestato, nel 2010 fu condannato dal regime a non dirigere film per vent’anni. Lui riuscì a infilare il suo documentario dal titolo provocatorio This is not a film in una chiavetta Usb che finì dentro una torta, consegnata a Cannes. La trama di quel film è semplice: un regista, lui stesso, costretto a rimanere chiuso nella sua casa, che racconta il film che avrebbe voluto fare e che non gli hanno fatto fare. Buona parte delle riprese sono realizzate con un iPhone. Il regime era così sicuro di averlo silenziato, che non si era accorto che un suo film era già volato all’estero. Ecco perché il cinema fa così paura.