Pensioni, la flessibilità si paga. Via a 63 anni con assegno tagliato

Spunta l’idea di rendere universale il meccanismo di Opzione donna: ma le penalizzazioni sono del 25-30%

La previdenza in Italia

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La partita pensioni è tutt’altro che chiusa con Quota 102 e Ape sociale estesa. La prima novità in arrivo potrebbe riguardare il ripristino di Opzione donna nella versione attuale a 58-59 anni invece che a 60-61 come previsto dalla bozza della legge di Bilancio approvata dal governo qualche giorno fa.

Ma sono ugualmente rilevanti le spinte a trovare, nei due mesi che restano, una soluzione più strutturale e di media durata per il dopo Quota 100: e in questo caso potrebbe diventare realtà la cosiddetta Opzione Tutti o Opzione Nannicini (dal nome del senatore del Pd che, da anni, la propone): uscita flessibile per tutti a partire dai 63 anni con il calcolo interamente contributivo dell’assegno.

Ma partiamo dalla possibilità più immediata all’orizzonte. A chiedere che Opzione donna torni all’attuale formulazione, che prevede la possibilità di lasciare il lavoro con 35 anni di contributi e 58 anni di età (se lavoratrici dipendenti) o 59 (se autonome) sono, in sostanza, tutti i partiti. In prima fila la Lega (che ieri ha rilanciato la tesi con la sottosegretaria al Lavoro, Tiziana Nisini), ma anche i grillini (con l’ex Ministro Nunzia Catalfo che ipotizza un emendamento in sede parlamentare, se il governo non dovesse cambiare di sua iniziativa).

E non sono da meno nel Pd. Anche perché, a conti fatti, Opzione donna costa in termini di cassa ma non in termini strutturali: il calcolo interamente contributivo dell’assegno, infatti, comporta un taglio del 25-30% sull’importo. Per questo, dentro allo stesso esecutivo c’è chi spinge per estendere la formula a tutti come soluzione di flessibilità generale e in qualche maniera strutturale. Tanto più perché permetterebbe di superare definitivamente il meccanismo delle Quote, altamente discriminante per le donne e per i giovani.

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In questa direzione andrebbero le parole di Mario Draghi sul "ritorno al contributivo". E, da questo punto di vista, potrebbe tornare utile la proposta di Nannicini sull’uscita flessibile da 63 anni in avanti con un minimo di 20 anni di contributi, ma con il calcolo contributivo integrale dell’assegno all’insegna della soluzione "chi vuole la flessibilità, se la paga". Il tutto accompagnato, nel caso delle donne, da una transizione progressiva da 58-59 anni di Opzione donna a 63 della nuova formula. Il sindacato, del resto, potrebbe accettare il meccanismo perché, in realtà, già oggi il calcolo contributivo riguarda tutti coloro che hanno cominciato a lavorare dal 1996 in avanti, mentre anche quelli delle classi precedenti o hanno il retributivo solo per gli anni precedenti al 1995 (coloro che avevano meno di 18 anni di attività in quell’anno) o, in circa 300mila in tutto, lo hanno fino al 2011.

Come dire: il ricalcolo fa sempre meno male. A quel punto, la riforma, sulla scorta del progetto complessivo di Nannicini, potrebbe risolvere stabilmente anche due altri nodi: quello dei lavoratori fragili, con la stabilizzazione dell’Ape sociale per le categorie dei gravosi, dei disoccupati, degli invalidi e di coloro che assistono i disabili. E quello dei giovani precari o con carriere discontinue: con la previsione di un trattamento minimo pensionistico, la cosiddetta pensione di garanzia, per coloro che non lo dovessero raggiungere. Insomma, il pacchetto strutturale esiste. E, se c’è la volontà politica, potrebbe diventare la soluzione di medio periodo che mette al riparo da interventi spot anno per anno.

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