Pass, code, app e tanta confusione. A Tokyo un'odissea degna di Fantozzi

I tamponi fatti in Italia non bastano. Tra cellulari tracciati e prove salivari, anche tra i giapponesi regna il caos

Un gruppo di poliziotti giapponesi

Un gruppo di poliziotti giapponesi

Peccato che Paolo Villaggio non sia più tra noi. Davvero. Nessuno meglio del suo mitico ragioniere, l’eroico Ugo Fantozzi, avrebbe potuto raccontare questa Olimpiade giapponese. Oggi si alza il sipario sui Giochi, già entrati nella storia in nome di una devastante certezza: per la prima volta hai paura di risultare positivo prima delle gare causa Covid-19 e non dopo causa doping!

Premessa. Che cosa sia capitato nel mondo nell’ultimo anno e mezzo, da Wuhan in poi, lo sappiamo già tutti. Paradossalmente, la pandemia era stata fin qui benissimo gestita dai giapponesi: a dispetto di una età media della popolazione molto alta (sono più longevi di noi, gli eredi dei Samurai), hanno avuto pochi contagi e poche vittime. Solo che il Sol Levante è un arcipelago di isole, chiudere tutto non era poi un problema. Ma come la metti con una Olimpiade, evento che anche senza turisti ti porta il mondo in casa? La metti male, per noi fantozziani viaggiatori nel vuoto della famigerata “bolla”. Sin da Fiumicino, sede di partenza. Giusto per tenerti su il morale, la romanissima addetta al check-in ti compiange: “poverino, le auguro tanto di tornare sano, comunque daje!“.

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Daje, okay. Qui serve un incoraggiamento corale, come quando il ragionier Fantozzi annuncia ai vicini che tenterà di prendere l’autobus al volo. Perché atterri a Tokyo, dopo una dozzina di ore di volo, e comincia il gioco dell’Ocha. Ho scritto "Ocha" con la acca e c’è un motivo. Questa giuliva Ocha è la app per il cellulare ideata dai giapponesi per controllarci in ogni istante della nostra permanenza. Andiamo in bagno? Ocha segnala. Ci spostiamo in piscina per la gara di Paltrinieri? Ocha lo sa. Tutto vede e nulla sfugge, banzai.

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C’è però un problema. La app giuliva non funziona. Non si capisce dove stia il malfunzionamento, comunque ti sciroppi novanta minuti di coda e mentre aspetti i supplementari e i rigori sognando Roberto Mancini arriva la nipotina di un Toyota o di una Honda che ti allunga un pezzo di carta colorata. Facciamo il tracciamento a mano e amen.

A posto? Niente in ordine. A questo punto vieni iscritto alla Coppa Cobram, sempre dentro l’aeroporto. È infatti in programma la prova dello sputazzo. Giuro, non me lo sto inventando. Non basta il tampone molecolare obbligatorio, fatto in Italia a 48 ore dal via. Adesso devi riempire di saliva una provetta. Rischiando l’essiccazione delle fauci, perché devi raggiungere un certo livello di liquido scaracchiante, pena la squalifica.

Oh, vai che ci siamo. Seeeee, come no: bisogna attendere l’esito del test salivare. Numeri a cinque cifre danzano minacciosamente sul tabellone elettronico. Sembra di stare a Wall Street. Invece è solo la quotazione del Covid.

Quando ricevi il via libera, munito di pass (però rosa, non green, forse per non irritare Matteo Salvini), ti senti come Edmond Dantès in fuga dalla Rocca della prigionia. Ma Montecristo non parlava giapponese e insomma ti avvisano: su un autobus colmo solo di stranieri ci puoi salire, ma se metti piede in un locale frequentato da giapponesi rischi di essere decapitato con la katana.

No, questo non è vero. Comunque vadano le cose, i giapponesi non hanno perso la loro abituale cortesia e gentilezza nei confronti dei visitatori. Sono sempre educatissimi, solo che stavolta ci sopportano e alla fine della prima giornata olimpica io sono pervenuto a una conclusione incontestabile. A Tokyo conoscono il ragionier Ugo Fantozzi.