Giovedì 18 Aprile 2024

"Parlo coi cadaveri, mi chiedono giustizia e mi svelano i nomi degli assassini"

La signora dei cold case: durante l’autopsia sono razionale e precisa, ho la responsabilità dei pazienti che mi trovo davanti. "L’esperienza più sconvolgente è stata un bambino migrante annegato, aveva la pagella cucita nella tasca"

Cristina Cattaneo al Labanof  che dirige a Milano

Cristina Cattaneo al Labanof che dirige a Milano

"Che cosa provo durante un’autopsia? Le prime volte ero agitatissima, un turbinio di emozioni. Adesso non potrei permettermelo. Sono razionale, precisa, non devo sbagliare. Ho la responsabilità dei pazienti che mi trovo davanti". Li definisce pazienti, anche se sono corpi senza vita. La signora dei cadaveri si chiama Cristina Cattaneo, ha 57 anni, tre lauree, un compagno ("sopporta tutti i miei impegni"), due cani. È piemontese ma vive a Milano, insegna Medicina legale alla Statale: nell’aula magna, la cattedra-teca trasparente custodisce il tavolo di ceramica che accolse la salma del Duce il 30 aprile 1945. Soprattutto dirige il prestigioso Labanof, laboratorio di antropologia e odontologia forense nato con lei nel 1995. "Una cosa che prima esisteva solo nei telefilm americani". Si è occupata dei casi recenti di cronaca nera più importanti: Yara Gambirasio, Serena Mollicone, Elisa Claps, le Bestie di Satana, Imane Fadil. Il suo regno è l’obitorio con 101 celle frigorifere. In quel luogo parla con i morti. O per essere precisi: i morti parlano con lei.

Che cosa le dicono?

"Tutto. Le macchie sulla pelle, il viso, le mani danno informazione preziose. Le ferite e le analisi spiegano com’è sopraggiunta una fine violenta. Dalle ossa capisci che cosa mangiavano e le loro malattie. Impari a conoscerli e cerchi di aiutarli".

Come si aiuta un morto?

"Rendendogli giustizia. È il modo per onorarlo e dare risposte alla sua famiglia. Un dovere morale".

I morti sono tutti uguali?

"Dovrebbe essere così. Ma non lo è. L’esperienza più sconvolgente è stata tentare di dare un nome alle centinaia di migranti annegati nel Mediterraneo in due giganteschi naufragi: 3 ottobre 2013 e 18 aprile 2015. Abbiamo lavorato tre mesi alle identificazioni nella base Nato siciliana di Melilli. Impresa che sembrava impossibile e che invece va avanti, grazie alla mobilitazione del mondo accademico sotto la guida del commissario straordinario per le persone scomparse: tredici università coinvolte con le forze dell’ordine, vigili del fuoco, Marina. L’orgoglio italiano di fronte all’Europa".

Storie devastanti. Come si affrontano?

"Sapendo che hai un compito. Vedi il bambino affogato con la pagella cucita nella tasca, l’altro che si portava dietro un sacchettino di terra del suo Paese. Prima pensi: non è possibile. Poi montano indignazione e frustrazione. Ti ribelli: non si può morire così. A salvarti è la tenerezza, immagini che uno di quei poveri corpi chieda: se non lo fai tu, chi dirà a mia madre che sono morto?".

Com’è stata la sua infanzia?

"Turbolenta. Sono nata nel Monferrato, ma quando avevo sei mesi la famiglia si è trasferita in Canada. Mio padre era ingegnere: dove non c’era nulla nasceva una città. Abbiamo girato fra Labrador, Nuova Scozia, Terranova, l’Alaska perfino".

Le piaceva?

"Nazione sconfinata. L’Italia era un piccolo mondo, l’estate sulle colline a Pontestura, le radici. Mi nascondevo sotto il letto quando la vacanza finiva: non volevo ripartire. Così a 13 anni ho cominciato il liceo classico a Casale".

Che ragazzina era?

"Curiosa, direi. A sette anni mungevo la vacca del vicino. Poi ho deciso che sarei stata una ballerina. Intanto giocavo terzino a Ozzano, paese attaccato a Casale: la storia del calcio, la squadra dello scudetto, la maglia nerostellata. Ora è un vivaio della Juve: la domenica andavamo a Torino per vedere allo stadio Bettega, Tardelli e Cabrini".

E lo studio?

"Le elementari le ho finite a Montreal, fra studenti irlandesi cattolici. Mi prendevano in giro e ho tenuto duro. Mio padre voleva che facessi il medico, ma mi ha iscritta a Biologia: la laurea l’ho presa lì".

Quando è tornata in Italia?

"Mio padre, sempre lui, è andato a lavorare in Algeria. Io e la mamma invece abbiamo preso la via di casa. Ho cominciato a frequentare la facoltà di Lettere a Milano, del resto avevo studiato greco e latino. Ho incontrato un gruppo di archeologi inglesi che mi hanno presa come manovalanza stipendiata. Amore a prima vista. Ho avuto un contrattino per gli scavi nella necropoli di Casteggio, zona dell’Oltrepò pavese. Mi sono appassionata davanti allo scheletro di una giovane donna romana decapitata. Un’adultera? Forse. Ho archiviato la mancata risposta come un debito da saldare, prima o poi".

Per cui?

"Mi sono trasferita a Sheffield: master e dottorato di quattro anni in Antropologia. Lì sono entrata in contatto con il mondo forense. Altro colpo di fulmine".

Come l’ha messa con suo padre?

"Ordine perentorio: laurearsi in Medicina. Ho ubbidito e nel ‘94 ho chiuso la partita. I tasselli della mia vita finalmente erano completi, dovevo solo metterli in ordine".

L’ha fatto occupandosi di cadaveri: com’è l’odore della morte?

"Un odore che logora. I primi tempi cercavo in tutti i modi di scrollarmelo di dosso, lavavo i maglioni di continuo. Poi è passata".

Riesce a controllare la commozione?

"Non posso permettermela. Durante l’autopsia mi concentro alla ricerca di ogni possibile traccia: devi ascoltare quello che i corpi raccontano. Mi prendo cura di loro".

Si è presa cura di Yara con una relazione di 352 pagine.

"Lei e le altre vittime mi hanno insegnato che le cose più importanti sono invisibili".

Teme la morte?

"Mi fa paura l’ignoto, anche se ho una fede tutta mia: sono cristiana per cultura. E mi fa paura la violenza che il mio mestiere non riesce a esorcizzare. Però la notte dormo tranquilla, a luci spente e porta aperta. Adoro Maigret, i thriller, i polizieschi".

Che cos’è il male?

"Sul tavolo delle autopsie e nei sopralluoghi vedo tutto lo spettro dell’anima umana: nefandezze e nobiltà morale. Sono obbligata a frugare negli anfratti. Alcuni sono sfavillanti di solidarietà, affetto, pietà".

C’è chi dice: non è un lavoro per donne.

"È un errore. Sensibilità, eclettismo, empatia, creatività sono requisiti molto femminili. Comunque più di altri è un lavoro di squadra. Accanto al medico legale ci sono entomologo, geologo, botanico, zoologo, chimico, tossicologo. Insieme per guidare la giustizia sulla via della verità".

Eppure fra medico legale e magistratura non tutto fila liscio.

"Il rapporto di fiducia con le procure si è incrinato. Ci chiedono sempre meno autopsie malgrado il nostro valore sia internazionalmente riconosciuto: la patologia forense è una scienza a rischio estinzione. Ma noi abbiamo un patto d’onore con i morti".