Giovedì 18 Aprile 2024

Paris e quel primo selfie (a prova di scimmia)

L’ereditiera Hilton rivendica di averlo inventato 15 anni fa con Britney Spears. Ma anche i macachi e le sonde Nasa sanno farsi un autoscatto

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di Piero Degli Antoni

In attesa di scoprire a chi diavolo possa essere venuto in mente di proclamare la Giornata Mondiale del Selfie, non possiamo esimerci dal considerare l’oggetto della ricorrenza come un simbolo di questo secolo. Una volta si chiamava autoscatto, ma già il nome emana un olezzo stantio, come il gettone telefonico o le pattine da salotto. Selfie invece è cool, così cool che nessun potente del mondo (tranne forse Erdogan e Putin, gente poco incline all’indispensabile sorriso richiesto in questi casi) se ne è sottratto: non Angela Merkel, non Barack Obama (in compagnia della nostra Bebe Vio) e nemmeno Papa Francesco, che con la sua bonomia popolare si è offerto allo scatto dello smartphone.

Per quanto Paris Hilton si ostini a sostenere che l’autoscatto l’ha inventato lei, retrodatandone la nascita al 2006, pare che il selfie sia effettivamente nato nel 1839 quando a Robert Cornelius, pioniere delle fotografia, venne l’idea di mettersi davanti anziché dietro l’obiettivo. Mentre nel 1914 la granduchessa russa Anastasia Nikolaevna, all’età di 13 anni, si scattò una foto con l’aiuto di uno specchio, foto che spedì a un amico (e speriamo non si trattasse del progenitore del sexting).

In realtà il selfie nasce davvero solo con gli smartphone, e con l’idea di collocare una telecamera frontale: il primo apparecchio a esserne dotato fu il Sony Ericsson Z1010 (1998), pace all’anima sua. Da allora l’autoscatto è stato promosso di categoria ed è diventato selfie, testimone immancabile di ogni avvenimento della nostra vita. La nostra sarà ricordata – purtroppo, oltre al Covid – come l’epoca del selfie, il graffito indelebile inciso sulla pellicola della nostra esistenza. Dicono che il selfie sia nato per condividere. Non credeteci: il selfie è nato per sbeffeggiare. È la vanteria in formato pixel di chi si trova in situazioni artatamente rappresentate per suscitare invidia nel prossimo: io sono in maremontagnacollinaBahamasAcapulcoLoano e tu schiumi nel tuo loculo senza aria condizionata a Bereguardo. Il selfie è l’ambasciatore muto ma eloquente di frequentazioni prestigiose: una foto con attori, cantanti, politici, costituisce il miglior attestato di appartenere all’aristocrazia della mondanità. Poi c’è il terrificante momento dei selfie da cerimonia – matrimoni, battesimi, cresime – in cui, per entrare nell’inquadratura, gli ospiti si accalcano a tal punto che il peso specifico della massa supera quello dell’uranio impoverito. C’è il selfie scattato al volo dalla macchina, il selfie mentre si fa paracadutismo (di solito mai una bella immagine), l’immancabile selfie delle gambe sdraiate sul lettino in riva al mare. Purtroppo c’è anche il selfie omicida, quello per scattare il quale le persone scivolano giù da dirupi, moli incustoditi, corrimani cedevoli.

Scattare un selfie non è difficile (ci sono riusciti alcuni gorilla e anche un babbuino), il difficile è non scattare un selfie. Resistere all’ossessione di documentare sempre e comunque le nostre povere imprese delle quali, siamo sinceri, agli altri frega niente. Gli invidiosi – le invidiose – che ricevono un selfie trascorreranno ore ad allargare l’inquadratura per cogliere rughette malamente mascherate delle amiche, scuciture o macchie dei vestiti o, dio non voglia, oggetti imbarazzanti sullo sfondo (cercate su internet, è incredibile come la gente si fotografi senza controllare le zone circostanti). Selfie, che solfa.