Mercoledì 24 Aprile 2024

Paolo Rossi, con i suoi gol lasciammo gli anni di Piombo

Oltre il calcio, ha scritto la nostra storia. Mingherlino, le ginocchia fragili e l’andatura sghemba: il ’signor Rossi’ è stato il testimonial di un Paese. Un genio che rifiutava l’ostentazione

Un gol di Paolo Rossi nella partita Italia-Brasile, battendo il portiere Waldir Peres

Un gol di Paolo Rossi nella partita Italia-Brasile, battendo il portiere Waldir Peres

Non se ne comprende la grandezza, ma oserei scrivere l’unicità, se non si restituisce il personaggio al contesto, all’epoca in cui si manifestò il talento del calciatore. Mi spiego. Pablito, come ci abituammo a chiamarlo, era il testimonial perfetto di una Italia, intesa come nazione (e non soltanto come Nazionale!), che disperatamente voleva gettarsi alle spalle le buie convulsioni degli anni di Piombo. Chi c’era, lo sa. Il cupo periodo del terrorismo rosso e nero. Le strade insanguinate. Le piazze trasformate in palcoscenici di guerriglia. L’opprimente sensazione di essere condannati a una incertezza dolorosa.

In tutto questo, spunta dalla natia Toscana un ragazzo che non ha proprio niente del potenziale fuoriclasse. Un fisico mingherlino. Le ginocchia fragili. L’andatura sghemba. Persino nome e cognome indicano una predisposizione all’anonimato. Paolo Rossi. Come il signor Rossi della porta accanto o delle barzellette. Ecco, c’è qualcosa di meravigliosamente italiano, nella trasformazione in simbolo del signor Rossi. C’è la sublimazione di una genialità che rifiuta l’apparenza, l’ostentazione. Tante volte, in campo, ti chiedi dove diavolo sia finito Pablito. Lo scoprirai un istante dopo, vedendolo esultante con le braccia al cielo, in festa per un gol segnato chissà come. Ah, Paolino! Iniziammo a innamorarci di lui mentre le BR massacravano la scorta di Aldo Moro. Lui militava nel Vicenza e quasi ci vinse lo scudetto. Il ct degli Azzurri, l’ingiustamente dimenticato Enzo Bearzot, lo convocò per il mondiale in Argentina. Era l’estate del 1978. Moro era stato assassinato, il presidente della Repubblica Leone era stato costretto alle dimissioni. Un Paese sull’orlo del baratro a chi poteva aggrapparsi? A lui. A Pablito. Alla squadra del Vecio Bearzot. Muovendosi con quella sua andatura vagamente Baglioniana ("Quella camminata strana", pure in mezzo a chissà che l’avremmo riconosciuta!), beh, Rossi segnava gol bizzarri, astrusi, rapinosi.

Fu subito Mito. Anche perché, incredibilmente, la Juve di Boniperti aveva perso l’asta in busta segreta per il suo cartellino. Il bomber era rimasto in provincia, a Vicenza prima e a Perugia poi. E questo piaceva all’Italia che mal sopporta l’arroganza di chi è troppo potente. Dicevo sopra che Pablito è stato un testimonial. Anche nella capacità di reagire all’ingiustizia percepita. Nel 1980 lo squalificarono per due anni, accusandolo di aver partecipato a una combine. Non per denaro, attenzione: per ottenere di segnare due gol. In sede penale fu assolto da ogni addebito. Ma, appena ventiquattrenne, fu trasformato in spettatore forzato. Poteva lasciarsi andare. Mollare. Arrendersi. Ma c’era, in quel corpo minuto, un’anima d’acciaio. L’anima dell’Italia profonda.

Che cos’è, un sogno? Cosa ci spinge oltre il limite, se non il desiderio di realizzare l’impossibile? E di questo si è reso protagonista il signor Rossi. Con una tenacia che faceva a pugni con la sua immagine dimessa. Si allenò per ventiquattro lunghi mesi con la Juventus. Silenziosamente. Al sabato gli altri partivano per il match della domenica e lui se ne tornava a casa. A chiedersi se mai ci sarebbe stato un futuro, un dribbling, un gol. Ora, chi già era al mondo vi saprà dire con assoluta precisione dove stava il 5 luglio 1982. Mondiale di Spagna. Italia contro Brasile. Pablito titolare, a dispetto del parere di dotti, medici e sapienti. Solo Bearzot e i compagni di squadra credevano ancora in lui. In Paolino. I miracoli esistono. Rossi ne fece addirittura tre in un pomeriggio, nel caldo dello stadio Sarria, a Barcellona. Una tripletta che i brasiliani non gli hanno mai perdonato. Ma chi se ne frega. Invece, frega e tanto quello che accadde al fischio finale. Milioni d’italiani impazziti si ripresero le strade e le piazze. Sventolando il tricolore. Paolo Rossi, con i suoi compagni azzurri, aveva messo idealmente fine agli anni di Piombo. Quella Nazionale ci restituì l’orgoglio. Eh, lo so, certo, il calcio non deve essere l’oppio dei popoli, ci mancherebbe. Ma ci sono momenti che si imprimono nella coscienza collettiva. Pablito non lo sapeva, non lo rivendicò mai, eppure fu il nostro Virgilio, ci tirò fuori dall’Inferno. Vincemmo il mondiale, con un’altra doppietta sua ai polacchi in semifinale e la rete dell’1-0 nella sfida decisiva ai tedeschi. Rossi era ormai uscito dalla cronaca per consegnarsi alla leggenda.

"Lui è stato il primo calciatore a inventare il GPS in campo – mi raccontò una volta Gibi Fabbri, suo maestro in panchina a Vicenza –. Nel senso che Paolino era un visionario, capiva prima di chiunque altro dove sarebbe schizzata la palla, che effetto avrebbe avuto un rimbalzo, dove sarebbe sfociata una carambola. Era un genio...". È vero e in Brasile ancora soffrono. Ma a me qui piace ricordare anche la delicatezza dell’uomo, la mitezza del provinciale bene educato, così lontano dalle smargiassate di tanti colleghi. Il signor Rossi era davvero un signore: lo dimostrò anche nella scelta di congedarsi presto e definitivamente dal mondo del calcio. Le ginocchia malandate non gli davano tregua. Disse basta dopo aver vinto scudetti e coppe con la Juventus e decise di dedicarsi ad altro. Mi era capitato di incontrarlo talvolta negli studi di Sky. Non se la tirava per niente. Gli raccontai cosa avevo fatto quel 5 luglio del 1982: dopo aver superato all’università l’esame di diritto del lavoro, mi ero accasciato sul divano ad aspettare Italia-Brasile. Avevo una emicrania pazzesca, ma la sua folle tripletta mi guarì dal mal di testa.

Si mise a ridere. Ero meglio dell’aspirina, mormorò. Come potevamo non voler bene a uno così?