Pandemia e guerra: “Siamo in uno stato di ‘disattesa’, ci sentiamo in mano di altri"

La psicologa Agnese Scappini descrive gli effetti sulla psiche di adulti e bambini di oltre due anni di emergenze tra Coronavirus e il nuovo conflitto in Ucraina: “Mai così ansiosi, depressi, passivi e impotenti. Bisognerebbe invece tornare a un’attesa desiderante e propositiva”.

Agnese Scappini, psicologa

Agnese Scappini, psicologa

ROMA - Come i topi in gabbia di Martin Seligman, dopo aver cercato invano di cambiare il corso delle cose, ci inibiamo e cadiamo in uno stato di passività. La teoria dell’impotenza appresa – come spiega Agnese Scappini, psicologa e dottoressa in Filosofia ed Etica delle relazioni umane – è alla base del malessere che, dopo due anni di pandemia e l’emergere, drammatico, di un nuovo stato di allerta determinato dallo scoppio della guerra russo-ucraina, si sta diffondendo nella popolazione.

Partiamo dalla pandemia: che traccia hanno lasciato, ad oggi, questi due anni di emergenza sanitaria?

“Con la pandemia il primo problema – sottolinea Scappini – è stato la perdita della socialità, della relazione. Un elemento che è garante di salute: lo stare bene è, infatti, strettamente connesso con lo stare con gli altri. In questi due anni stiamo perdendo questa capacità che per noi è connaturata. L’altro, ad oggi, è diventato una minaccia e questo ci mette in uno stato costante di allerta. Uno stato che, anche a livello ormonale e di sostanze che produciamo nel nostro organismo, determina una serie di stati emotivi che vanno dall’ansia alla fase depressiva con il conseguente insorgere di patologie ansioso-depressive”.

Come si manifestano tali patologie?

“C’è una prima fase di allerta, quella ansiosa, che poi, nel perdurare, dal momento che si tratta di ormoni, come il cortisolo, che rimangono in circolo a lungo, produce uno stato infiammatorio. Un organismo in uno stato infiammatorio riduce la produzione di ormoni del benessere e declina in uno stato depressivo che determina emozioni ‘gravose’ come la tristezza e l’angoscia. In questi due anni c’è stata una prima fase in cui abbiamo mantenuto uno stato di attivazione che oggi sta lasciando il posto a una passività rispetto a quanto succede. Questo fa sì che andiamo ad accogliere anche condizioni che non avremmo accettato prima in quanto ci siamo abituati a una condizione declinata di stare bene”.

Ci siamo abituati a una situazione eccezionale che dopo due anni è diventata la normalità?

“Esatto. Abbiamo messo in atto e appreso quel meccanismo di reazione che si chiama ‘impotenza appresa’ e che è alla base del drastico aumento di patologie depressive soprattutto nei giovani. Se – come hanno dimostrato diversi esperimenti – a un topolino chiuso in gabbia vengono inflitte delle scosse elettriche inevitabili all’inizio tenterà di reagire, ma dopo un certo tempo, avendo capito che non c’è nulla da fare e che il suo ambiente è completamente imprevedibile, si fermerà subendo passivamente tutte le scosse. In seguito anche in assenza delle scosse l’animale non tenterà più di scoprire se spostandosi può evitarle fino a smettere di cercare il cibo e lasciarsi morire. Quando il nostro ambiente diventa imprevedibile, minaccioso, e noi non abbiamo potere su questo, sviluppiamo tutta una serie di emozioni che ci vanno a bloccare. Questo è quello che sta succedendo”.

Come può manifestarsi questo ‘blocco’?

“Lo vedo soprattutto nei ragazzi. Ad esempio ci sono molti studenti, anche molto bravi a scuola, che vengono da me perché al rientro in classe non riescono più a sostenere interrogazioni in presenza. Non reggono più l’impatto reale. E questo ha implicazioni nello sviluppo di un adolescente”.

Quale sarà l’impatto sui più piccoli? Ci sono bambini che non hanno ricordi di un mondo senza mascherine.

“Vista la plasticità che hanno, nel momento in cui si propone ai bambini una realtà che vada a sovrascrivere quelle memorie vi è un recupero importante. Ciò che ha avuto un impatto nocivo è la distanza. I bambini hanno bisogno del contatto fisico. Abbiamo cellule nel derma, che è il perimetro del nostro sé, che comunicano direttamente con la nostra parte limbica, con il nostro cervello più antico che è quello emotivo. Il tatto è il senso reciproco in assoluto: essere toccati significa allo stesso tempo toccare l’altro. Ai bambini è, invece, arrivato il messaggio che l’altro poteva essere pericoloso se si avvicinava troppo. La paura dell’altro ha creato una traccia importante che può provocare conseguenze come l’incapacità di approcciarsi all’altro, di fare gruppo”.

Che effetti ha avuto la pandemia sul mondo del lavoro?

“Molti manager con cui parlo hanno il problema che non riescono a riportare i propri gruppi di lavoro in azienda. Parlando con i consulenti emerge, inoltre, un grande abbandono anche di posti fissi e l’esigenza di rinnovarsi. Questo può essere visto in positivo come la ricerca di un benessere che prima non era molto attenzionato, la ricerca della qualità della propria vita. Il lato negativo è la perdita della relazione con l’altro che rende le persone più diffidenti e insofferenti. Questo ha portato all’incremento di separazioni e divorzi, all’incremento di ogni tipo di violenza perché le persone hanno perso la propria capacità regolazione rispetto all’altro”.

Che cosa bisogna fare?

“Cercare nella consapevolezza, mettendo in luce queste dinamiche, la soluzione. E dall’altro lato, assecondando i tempi, potrebbe essere necessario trovare anche nuove soluzioni sul fronte dell’organizzazione del lavoro”.

In questo scenario lo scoppio del conflitto in Ucraina e il clima da guerra fredda con lo spettro dell’atomica che impatto ha?

“Come diceva Hobbes a differenza degli animali ‘l’uomo è affamato anche dalla fame futura’. Siamo esseri proiettivi, dobbiamo organizzare il nostro comportamento sulla base di una progettualità. Quello che sta accadendo ci sta togliendo questo: non riusciamo a progettare. E questo provoca una frustrazione che ci fa inibire sempre di più. Nel nostro ambiente ora vi è una minaccia ancora più paventata del Covid, che percepivamo nell’immediato. Una paura che sentiamo vicina ma che oggi, al di là dell’impatto economico nelle bollette, è lontana. Questo ci mette, come nel caso dei topolini, in uno stato d’allerta sul quale non abbiamo però controllo. Uno stato che inibisce completamente la nostra progettualità con il conseguente emergere di emozioni negative. Quando noi scegliamo, decidiamo e agiamo per paura agiamo sulla difensiva quindi con uno sguardo e un passo indietro, quando riusciamo a decidere o ad agire per gioia allora agiamo in prospettiva guardando al futuro. I genitori sono preoccupati per il domani dei loro figli, i figli sono spaventati e stanno perdendo la fiducia nel futuro. La mancanza di desiderio verso il futuro porta alla paralisi”.

La vita si è messa in pausa in attesa che le cose si sistemino?

“Il problema è che ora sta finendo lo stato di attesa e prevale la sfiducia. Siamo annichiliti, nietzschianamente parlando. La passività dell’attesa impotente determina frustrazione. Si tratta di una ‘disattesa’ dettata dal sentirsi in mano a qualcun altro. Bisognerebbe invece tornare a un’attesa desiderante e propositiva”.

Soprattutto nelle prime settimane la paura della guerra e di un disastro nucleare ha portato alcune persone a fare incetta di pillole di iodio nelle farmacie. Altri hanno addirittura contattato ditte specializzate nella costruzione di bunker. Al di là di questi episodi tali stati di ansia possono portare a conseguenze più gravi?

“Assolutamente sì, a studio vedo molti casi. Vivere in uno stato di terrore che sviluppa anche in senso paranoide porta alcune persone a pensare che il nemico sia ovunque. L’altro diventa una minaccia. Sviluppare tale visione paranoide, che a livelli estremi è una patologia, come sistema di difesa porta a registrare e a mantenere questo atteggiamento nel comportamento. E, a quel punto, per questi soggetti la realtà diventa completamente incerta. C’è chi si chiude in sé stesso e decide di non uscire più. Conosco tante persone, anche ragazzi, chiusi nelle loro stanze che dicono ‘che esco a fare se lì fuori c’è una minaccia pronta?’. Questo si declina sia in una patologia individuale che in un malessere sociale”.

C’è il rischio che le persone soggette a sviluppare questo tipo di disturbi di fronte a notizie tragiche e al clima che stiamo vivendo si aggravino?

“C’è il rischio che con il perdurare di questa situazione le manifestino. La patologia mentale è sempre data da un match tra un ambiente che dà certi input e un organismo che si adatta. Alcuni organismi riescono ad adattarsi al meglio, senza sviluppare problematiche, altri si adattano sviluppando una disfunzionalità”.

Che eredità ci lasceranno questi anni?

“Penso che le grandi crisi ci mettano nella condizione di rivedere quello che non andava già bene. La speranza è che ciò si traduca in cambiamenti positivi e in una maggiore attenzione all’altro. Il Covid ci ha insegnato che l’agire di ognuno di noi ricade sugli altri e questo auspicabilmente ci porterà a una socialità più etica e attenta. Immersi in una società consumistica dove la performance, il fare e l’emergere sono i valori predominanti, stiamo riscoprendo il senso dell’umanità, la propensione verso l’altro e all’aiuto. Doti che in questo momento anche la guerra sta facendo riemergere”.