Mercoledì 24 Aprile 2024

Ora il Pd scopre la paura di Draghi "Siamo di sinistra, si deve vedere"

Il partito fibrilla dopo la svolta che prevede lo sblocco dei licenziamenti. Il premier: "La mediazione ha retto"

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di Antonella Coppari

Che la tensione ci sia è certo, si avverte a pelle. Ma i punti di attrito tra il Pd e Draghi non sono tali da giustificare, da soli, tanto scompiglio e tanto nervosismo. Prendiamo il blocco dei licenziamenti: c’è stata una contrattazione e, in parte, è passato quanto chiesto da Orlando. "La mediazione ha retto – scandisce il premier – l’intervento che abbiamo previsto è in linea con tutti gli altri paesi Ue". Una polemica che lo stesso ministro del Lavoro definisce "ingiustificata e senza senso: la norma era stata trasmessa al Cdm".

Ancora: il decreto semplificazioni. "Il testo girato nei giorni scorsi è una bozza molto preliminare – dice ancora l’ex governatore Bce –. Arriviamo nei prossimi giorni a una risposta definitiva che verrà condivisa a livello di cabina di regia e di Consiglio dei ministri". Lo scontro c’è, ma è soprattutto dentro il Pd, tra i rappresentanti dei territori – da Decaro a Nardella – inclini ad abbattere il più possibile i vincoli burocratici e il fronte di chi è preoccupato per il rispetto della legalità. D’altra parte, "la diversità di vedute" non sorprende Draghi: "Verranno introdotti mutamenti profondi, si troverà un punto d’incontro". Resta la ferita di Letta con la patrimoniale sulle eredità più ricche: una provocazione? "È la battaglia principale che voglio fare", assicura il segretario del Pd dagli schermi di La7. Anche perché, spiegano al Nazareno, l’uscita ha pagato: "La scorsa settimana era stato pubblicato un sondaggio con il sorpasso della Meloni sul Pd. Quello nuovo, divulgato quattro giorni dopo la proposta del prelievo per fare una dote ai diciottenni, registra il recupero del partito". Ecco perché il leader insiste che entri nel disegno di riforma fiscale complessiva chiesta dall’Europa. "Chi vive di rendita aiuti chi lavora".

Ma il problema è più profondo. La strategia impostata da Letta sin dal giorno dell’elezione a segretario non decolla. Si trattava – secondo le sue parole – di mostrare che il Pd è la vera colonna del governo Draghi e quindi, anche se l’ex premier non lo aveva esplicitato, di spingere la Lega "l’intrusa", sempre più ai margini. Se possibile costringendola a uscire dalla maggioranza in modo da spaccare il centrodestra e prefigurare dopo le elezioni una coalizione Ursula (formata cioè da Pd, M5s e FI, i partiti che hanno votato la von der Leyen per la presidenza della commissione Ue). Lo scontro sulle successioni, ma anche il braccio di ferro sulle semplificazioni e la tensione sulla norma Orlando contro i licenziamenti hanno rivelato che quella tattica non è semplice come poteva sembrare, e mettere la targa Pd su questo esecutivo è quasi impossibile. Così nei corridoi del Nazareno ha iniziato a aggirarsi il fantasma più temuto: quello del governo Monti. "Abbiamo dato il sangue per quell’esecutivo, e siamo stati bastonati dai nostri elettori – spiega Marco Miccoli –. Se ora aderiamo a ogni proposta, senza imporre le nostre idee, finisce nello stesso modo".

La musica, dunque, è cambiata e ancora di più cambierà nelle prossime settimane. "Manteniamo grande lealtà e consuetudine di rapporti con Draghi – rilanciano nel cerchio di Letta –, ma continuiamo a fare politica con proposte che rispecchiano valori e identità del Pd". E dunque, se necessario, i conflitti e le differenziazioni saranno visibili e numerosi. I moderati del partito come Andrea Marcucci avvertono il rischio: "Non perdiamo il legame con il governo Draghi", implora l’ex capo dei senatori democratici. In realtà quel legame non vuole perderlo neppure Letta, ma non a costo di finire come Bersani ai tempi di Monti.