Omicidio Civitanova, lo psichiatra: Ferlazzo visitato ad aprile. "Non emersa aggressività"

L’operaio affetto da sindrome bipolare. "Disturbo comune, non basta a spiegare la violenza"

L'omicidio di Civitanova: Filippo Ferlazzo uccide Alika Ogorchukwu

L'omicidio di Civitanova: Filippo Ferlazzo uccide Alika Ogorchukwu

Civitanova (Macerata), 2 agosto 2022 - "Bisogna dire subito una cosa: condotte violente e malattia mentale non si possono sovrapporre, né si deve credere che un’eventuale incapacità di intendere e di volere sia una scappatoia per l’imputato". Dopo che è emersa la disabilità di Filippo Ferlazzo, il 32enne arrestato per l’omicidio di Alika Ogorchukwu, lo psichiatra Stefano Nassini, primario dell’Area Vasta 3, vuole sgomberare il campo da alcuni equivoci, partendo dal fatto che il salernitano, cui hanno diagnosticato la sindrome bipolare e border line, il 23 aprile si era presentato al pronto soccorso di Civitanova e si era fatto visitare dalla psichiatria. "Non era in carico al servizio – precisa –, aveva avuto un contatto ma non era in cura. Dalla visita non erano emersi problemi gravi o aggressività allarmante, altrimenti sarebbe stato trattenuto. Piuttosto bisogna parlare dei determinanti delle condotte violente".

Che cosa significa? "Non si può attribuire la violenza alla malattia. In provincia di Macerata abbiamo in carico circa 3.500 persone, più altre che hanno rapporti regolari col dipartimento e altre ancora che vengono per una consulenza. Ma la violenza è un comportamento complesso con più determinanti, probabilmente un insieme di fattori, con la mancanza di fattori protettivi. Il disturbo bipolare è molto comune, non vorrei si creasse uno stigma associando il disturbo a un fatto come quello di corso Umberto I. Il disturbo bipolare non basta".

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A Ferlazzo erano stati fatti anche i trattamenti sanitari obbligatori. "Che sono provvedimenti medici a tutela del soggetto che ha bisogno di cure, ma non le accetta. Ma era pericoloso? E poi aveva altri problemi? Usava stupefacenti? La patologia peggiora con le sostanze, può avere caratteristiche transitorie e scaturire da un disagio, dal clima, da un trasferimento, da un problema di lavoro. Non associamo il disturbo a condotte violente".

Una diagnosi psichiatrica basta per evitare la condanna? "No. Bisogna vedere se una persona, al momento del fatto, era capace o no di intendere e di volere. E comunque, chi è ritenuto non imputabile per vizio di mente sconta delle conseguenze. Il tribunale chiede al perito di accertare la pericolosità sociale e se questa c’è, si applicano le misure di sicurezza, anche detentive. Ci sono percorsi, le residenze per l’espiazione della pena, strutture riabilitative e non carcerarie che però limitano la libertà, almeno fino alla riabilitazione. E spesso il percorso dura più di quanto sarebbe durata una condanna. Se invece una persona, anche con una diagnosi, risulta capace di intendere e di volere, va per le vie ordinarie del processo penale".

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Come si stabilisce se una persona era capace di intendere e volere al momento del fatto? "Il perito fa degli accertamenti, accede alla documentazione, c’è una metodica complessa e ci sono dei criteri per valutare l’incapacità totale o parziale".

Quanto è limitante l’amministrazione di sostegno? "È un provvedimento agile, si ritaglia sulla persona, che conserva i suoi diritti. In genere l’amministratore di sostegno ha la gestione economica dell’amministrato, lo supporta nelle cure. Di solito non prevede limitazioni alla libertà di spostamento. L’amministratore deve segnalare se il soggetto non segue le cure, non rispetta le prescrizioni, è una tutela per il soggetto amministrato. In questo caso, poi, era la madre, che per alcune cose può intervenire in modo più determinato, ma per altre forse meno".

Si poteva fare di più? "Intanto, lo scopo di questi interventi è di proteggere la società dall’aggressione, ma anche tutelare la persona che sta male. I provvedimenti coercitivi preventivi sono difficili, e le condizioni delle persone sono molto mutevoli. In ogni caso, la malattia non deve essere uno stigma, altrimenti la gente eviterà le diagnosi per paura di essere additata, di perdere il lavoro".