Giovedì 18 Aprile 2024

Omicidio Ciatti, solo 23 anni al killer Il papà: contro Niccolò crudeltà unica

La famiglia del ragazzo ucciso con un calcio da un ceceno (ora latitante): riconosciute attenuanti che non capiamo. In Spagna era stato condannato a 15 anni in appello. Varrà la sentenza che diventerà definitiva per prima

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dall’inviato

Stefano Brogioni

Girona, Barcellona, Roma. L’odissea giudiziaria della famiglia Ciatti non trova piena soddisfazione neanche nel processo italiano. Ventitré anni di reclusione per Rassoul Bissoultanov, il lottatore ceceno di arti marziali miste che sferrò il calcio alla testa che, nella notte del 12 agosto del 2017, pose fine alla giovane vita di Niccolò. Aveva 22 anni, era il titolare di un banco di ortofrutta al centralissimo mercato di San Lorenzo di Firenze ed era in vacanza a Lloret de Mar con gli amici con cui era cresciuto, a Scandicci. Non è l’ergastolo, che aveva chiesto il pm Erminio Amelio. Non è il massimo della pena che si aspettavano Cinzia e Luigi Ciatti. "Sono otto anni in più rispetto alla condanna spagnola, a questo punto non ci resta che sperare che venga trovato e torni in carcere", il commento a caldo, mentre le facce trasmettono insoddisfazione.

Bissoultanov non c’era, in aula. È latitante: dal luglio scorso, quando ha annusato il pericolo che la giustizia di Girona potesse rispedirlo dentro, è sparito. E ora la sentenza, letta dalla terza sezione della corte d’assise del tribunale di Roma (presidente dottoressa Antonella Capri), rischia di ampliare l’amarezza. Un grande rimpianto per una giustizia che non è esattamente andata come questa famiglia, composta ma determinata, ha sempre invocato. Il ceceno sconterà la condanna che diventerà definitiva per prima. E in Spagna, dopo i tentativi falliti di accordo fra i due Stati sulla giurisdizione, manca solo l’ultimo scalino della Cassazione, prima che i 15 anni – il minimo previsto per l’omicidio volontario – diventino definitivi ed estinguano il procedimento gemello istruito qui in Italia.

Nessuna attenuante, aveva invocato il pubblico ministero Erminio Amelio, nella sue conclusioni scandite nell’aula A del bunker di Rebibbia. Qui, dove si sono processati terroristi e stragisti, i giudici, togati e popolari, ascoltano. Il difensore del ceceno, Francesco Gianzi, ha provato in tutti i modi a demolire l’impianto accusatorio ed i suoi testimoni. Finanche a tentare di invalidare il video, tristemente noto, che filma gli ultimi attimi di Niccolò in vita sulla pista della discoteca Sant Trop, prima di spegnersi per quella pedata devastante, vibrata da un picchiatore allenato: "Nessuno ha fatto un riconoscimento antropometrico con Bissoultanov", ha detto. Alla fine, comunque, è riuscito a limitare le aggravanti: in questo modo, la pena non è lievitata molto più del minimo dei 21 anni.

Ma certe frasi hanno fatto scuotere la testa a babbo Luigi. Ha seguito ogni battuta seduto in terza fila, dietro al pm e ai suoi avvocati, Agnese Usai e Massimiliano Stiz. Accanto alla moglie Cinzia, come sempre. Anche lei è apparsa provata da un verdetto che non sa pienamente di vittoria. Questi due genitori non hanno perso un’udienza a Girona. Hanno sperato in un aggravamento della pena alla corte d’appello di Barcellona. Sono rimasti delusi anche ieri: "Ci aspettavamo l’ergastolo", ammette Luigi, "valuteremo con i nostri legali cosa fare". Il pm Amelio (che dopo la lettura della sentenza ha abbracciato il padre di Niccolò) ha concluso la sua requisitoria ricordando Niccolò. A livello tecnico, la discussione si è incardinata intorno al dolo dell’imputato, alla sua consapevolezza di poter ammazzare o dell’altrettanto grave "dolo eventuale", ovvero l’accettare il rischio di uccidere. La difesa ha tentato la carta della riqualificazione in preterintenzionale. L’accusa di omicidio volontario ha retto, alla fine.