Martedì 23 Aprile 2024

O Rei, mito per sempre Pelé il più grande di tutti Benedetto dal dio del calcio ma uomo fino in fondo

Il fuoriclasse brasiliano aveva 82 anni, i suoi gol rimarranno nella storia dello sport (e non solo). Dalla vita dura nelle favelas all’esordio da record a soli 17 anni. Spettacolare anche al cinema

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di Giuseppe

Tassi

Il ricordo più nitido di Pelé giocatore – morto ieri a 82 anni per le complicazioni del cancro – è impresso nella retina di milioni di italiani. O Rei che vola altissimo sopra la testa di Burgnich, quasi appeso a un ramo immaginario spuntato dal cielo. Sembra fermo nell’aria, il campione brasiliano, sospeso in un istante eterno che precede l’impatto con il pallone. Burgnich ha cosce che sembrano querce, ma la sua elevazione lo lascia mezzo metro sotto l’inarrivabile. La palla finisce in gol alle spalle di un Albertosi esterrefatto e l’Italia di Valcareggi capisce subito che amaro sapore avrà la finale mondiale di Messico ‘70. Quel gol e quella partita consegnano la Coppa Rimet al Brasile e consacrano in modo definitivo la stella di Pelé, protagonista dei tre mondiali vittoriosi degli oroverde: rivelazione assoluta nel 1958 in Svezia (a soli 17 anni) con i suoi gol e i tanti sombreri (la palla passata sopra la testa del difensore in piena area avversaria); grande assente per infortunio nel 1962 in Cile, sostituito da Amarildo, e poi leader dei tricampeones nel 1970, battendo in finale l’Italia di Valcareggi, reduce dal leggendario 4-3 dell’Azteca.

Pelé era talento puro, sposato a qualità fisiche eccezionali, un concentrato di classe con gambe e muscoli di caucciù, capaci di produrre scatti brucianti, finte e dribbling con naturalezza assoluta. Ma al genio calcistico seppe abbinare una dedizione quasi religiosa al lavoro sul campo, che gli ha consentito di giocare fino ai quarantanni, chiudendo la carriera nei Cosmos di New York, fra tanti assi europei richiamati dai dollari alla corte del soccer.

La vita di Edson Arantes do Nascimento, raccontata anche nel film Pelé del 2016 dei fratelli Zimbalist, è una fiaba moderna con il lieto fine. L’infanzia a Tres Coracoes, la dura vita nelle baracche della favela, il piccolo mito del padre Dondinho, anche lui calciatore. E poi il soprannome di Dico che diventa Pelé, un nomignolo affibbiato per scherno dai compagni di squadra e mai amato dal campione. E ancora la palla di stracci, i lavoretti da lustrascarpe e quel talento incontenibile che sboccia come un fiore fino a conquistare un osservatore del Santos, che gli schiuderà le porte di una carriera memorabile. Pelé ha camminato sereno accanto alla propria leggenda, senza le sbandate e cadute a precipizio di tanti divi storditi dalla popolarità o persi nel tunnel della droga.

Anche il cinema d’autore lo ha voluto sulla scena in Fuga per la vittoria di John Houston (1981). È Pelé a segnare il gol che innesca la fuga dei prigionieri verso la libertà con una fantastica rovesciata em bicycleta. Pare che O Rei abbia realizzato la prodezza al primo tentativo davanti a uno sbalordito Sylvester Stallone.

Stella indiscussa del Santos e della nazionale, Pelé aveva pure un sorriso disarmante, una comunicativa naturale che ne ha fatto per decenni l’uomo immagine della Fifa, un simbolo vivente del calcio. Gli oltre mille gol, i titoli mondiali, gli scudetti e le coppe erano parte della leggenda, ma la vera icona era il suo volto immutabile e quel fisico asciutto, quasi insensibile al passare degli anni. L’ho intervistato l’ultima volta a Bologna in una dei suoi passaggi promozionali in Europa nel 2001. Era un fantastico sessantenne che di anni ne dimostrava venti di meno. Affabile, semplice, sempre aperto al sorriso. Un campione vero, accessibile, figlio di un Paese come il Brasile che per il calcio delira. E anche un avversario leale, capace di riconoscere i meriti dei suoi aspri marcatori, i guardiani feroci chiamati a ingabbiare il suo talento. Capitò a Trapattoni in un’amichevole Italia-Brasile del 1963 affondare i canini sul collo del re dei re. Fece così bene il suo mestiere, il vecchio Trap, che dopo mezz’ora Pelé chiese il cambio.

Fra le stelle di sempre forse è proprio lui la più fulgida, insidiato da Alfredo di Stefano, la Saeta Rubia del Real Madrid e da Diego Armando Maradona, lo scugnizzo argentino che gli ha conteso lungamente il trono del più grande. Fantastico animale da calcio Diego, dotato di un istinto inarrivabile, di un talento unico. Ma il simbolo del calcio rimane Pelé, O Rei: benedetto dagli dèi del pallone, ma capace di essere uomo fino in fondo.