"Nostro figlio, l’autismo e i tortellini. Bottura? Adora il mio minestrone"

Modena, la moglie dello chef tre stelle Michelin: "Massimo è un vulcano, con lui ho sposato un ristorante". La coppia mette il cuore nel laboratorio che insegna un lavoro e dà un futuro a ragazzi come Charlie

Lara Gilmore con il marito, lo chef pluristellato Massimo Bottura,

Lara Gilmore con il marito, lo chef pluristellato Massimo Bottura,

Per Lara Gilmore, la signora Bottura, la sveglia suona sempre molto presto al mattino. "In estate mi piace inforcare la bicicletta all’alba e andare a fare un giro lungo le colline – confida –. Adoro il paesaggio, la campagna, i colori delle stagioni. Ma, anche in inverno, alle due del pomeriggio una bella pedalata non me la leva nessuno". Appassionata d’arte, musica, fine dining e ospitalità, Lara è il ‘motore’ quotidiano di tante attività dell’universo dello chef pluristellato. Accoglie una clientela internazionale a Casa Maria Luigia, la raffinatissima guest house (alle porte di Modena) circondata da giardini e costellata di opere d’arte, che alla sera rivela anche una ‘costola’ dell’Osteria Francescana, oppure fa un salto al Cavallino di Maranello, il ristorante del Drake che la Ferrari ha affidato alle cure di Massimo Bottura e Lara ha completamente ripensato nell’immagine e nel design: a volte si affaccia a salutare lo staff della Francescana – in questi giorni scocca il decennale delle tre stelle Michelin – e magari si ferma alla Franceschetta. Intanto tiene i contatti con le varie realtà di Food for Soul, l’associazione no profit (di cui è presidente) che insegna al mondo che il pane è oro, quindi recupera gli alimenti che andrebbero sprecati per servirli alle persone meno agiate anche in refettori aperti da Milano a New York o Parigi e Londra. Ma c’è un posto che Lara ha soprattutto nel cuore. È il Tortellante, il laboratorio (a ridosso del centro di Modena) dove 25 ragazzi autistici, come il suo Charlie, hanno trovato un luogo sicuro per stare insieme, imparando l’arte antica... di fare i tortellini.

Come è nata l’idea del Tortellante?

"Tutto viene dall’intuizione di una mamma, Silvia Panini, della famiglia delle figurine. Con lei e altre mamme abbiamo fondato il gruppo Aut Aut per un percorso di riabilitazione per i nostri figli. Fino a qualche anno fa mancava una conoscenza approfondita dell’autismo e dopo la scuola molti ragazzi rimanevano senza un progetto. Magari facevano basket, pallavolo, logopedia, ma non si vedeva una prospettiva".

E quindi?

"Insieme a Silvia ed Erika Coppelli, che oggi è la presidente del Tortellante, abbiamo pensato che sarebbe stato bello che le rezdore, le massaie della tradizione, potessero insegnare ai ragazzi a produrre i veri tortellini. Mi è subito sembrata un’idea meravigliosa. Fare un tortellino richiede applicazione, precisione, costanza. Al Tortellante i ragazzi sono accompagnati da operatori sanitari e volontari, hanno i loro tempi, si sentono protagonisti".

In che modo?

"Già il primo giorno i ragazzi hanno confezionato i tortellini e se li sono divisi fra loro. Alla sera ogni famiglia li ha cotti e mangiati: i ragazzi hanno compreso che quel lavoro era stato utile, perché erano stati loro a preparare la cena. Questo ha dato loro un enorme entusiasmo che si rinnova tuttora. Oggi il Tortellante vende tortellini a tutti, e li produce anche per Cavallino e Franceschetta".

Come ha cambiato la vostra vita?

"Per i ragazzi questo è un futuro, un lavoro, un’identità. E per tanti genitori si è rivelato un modo diverso per interagire con i ragazzi. Massimo, per esempio, faticava a relazionarsi con Charlie: il tortellino è divenuto come un ponte fra loro, è cresciuto un rapporto bellissimo. Charlie si è diplomato, frequenta l’università e diverse mattine le trascorre al Tortellante".

Il progetto evolverà?

"Il Comune ci ha concesso un altro spazio, qui a fianco. Nella primavera vogliamo aprirvi un locale di vendita con la possibilità di assaggiare i tortellini direttamente sul posto. Un’ulteriore opportunità per i nostri ragazzi".

Lara, ricorda come ha conosciuto Massimo?

"Ci ha fatto innamorare il Caffè di Nonna a Soho. È stato nel 1993. Massimo era arrivato a New York e decise di mettersi alla prova in quel locale che aveva bisogno di una svolta. Lo stesso pomeriggio in cui iniziò, io capitai là insieme a un amico con cui studiavo teatro: mi ero già laureata in storia dell’arte, ero anche stata per un anno in Italia, a Firenze, e mi dissero che stavano cercando una persona che potesse stare al bancone del bar per fare i cappuccini. È cominciato tutto così..." .

E poi?

"Massimo tornò in Italia e io lo seguii. Nel 1995, il giorno in cui aprì la ‘sua’ Osteria Francescana, lui mi telefonò e mi chiese di sposarlo. Insieme a Massimo, ho sposato un ristorante".

Cosa ammira di suo marito?

"È molto intuitivo, velocissimo ad afferrare un pensiero. Quando gli balena un’idea, la fa subito cara e cerca di metterla in azione. Un vulcano. In lui ho visto subito una persona che aveva la capacità di realizzare le cose, e non solo di immaginarle. Io sono più riflessiva, a volte mi pongo molti dubbi".

Riuscite mai ad andare a tavola insieme?

"Eh, è sempre molto difficile. Spesso ci vediamo di corsa. Quando il ristorante era chiuso il lunedì, riuscivamo ad andare a pranzo dalla Bianca, oppure a mangiare una pizza. Adesso il rito della cena insieme è quasi impossibile. Ma se preparo il minestrone, come lo faceva sua mamma, Massimo arriva a casa in un baleno".

Il lockdown però ha tenuto fermi anche voi...

"Sì, sono state settimane complicate. Per tenerci in contatto con tutti, nostra figlia Alexa, che si è laureata due anni fa e oggi lavora per la comunicazione Maserati, ha ideato una serie web, ‘Kitchen quarantine’, che andava in onda su Instagram. Ogni giorno noi tutti in casa preparavamo una ricetta, condividevamo la nostra vita. Era un modo per esortare a rimanere attivi e non scoraggiarsi. Con quel format Massimo e Alexa hanno vinto il Webby Award".

Modena è diventata la sua città d’adozione. Le piace?

"Moltissimo, anche perché l’ho vista crescere in questi anni. Amo i suoi colori, le sue strade, e anche l’offerta di ristorazione è molto migliorata in questi anni".

Le manca New York?

"Tanto. Mi manca la sua offerta di cibo etnico, mi mancano le sue mostre d’arte i musei e le gallerie. A gennaio conto di tornare in Colorado, dove abitano mia mamma e mia sorella, poi andrò anche a San Francisco per il progetto del nuovo refettorio, a Los Angeles e a Miami. E Charlie verrà con me".

Fra i piatti creati da Massimo, qual è il suo preferito?

"Le Cinque stagionature del Parmigiano: è come una poesia, un brano di musica contemporanea. È creato con un ingrediente storico, eppure Massimo è riuscito a tirarne fuori un paesaggio. Adesso lo serviamo fra i piatti ‘storici’ a Casa Maria Luigia, e spesso mi siedo anch’io a riassaggiarlo. Per me è un capolavoro".