"Non toccate il Jobs act" Gli esperti contro Letta Ma è guerra sui numeri

Da Marco Biagi a Matteo Renzi, passando per le modifiche di Di Maio e Fornero. Difficile dire quale norma abbia inciso davvero sulla crescita dell’occupazione

di Claudia Marin

Suscita stupore, tra gli addetti ai lavori, la sconfessione di Enrico Letta del Jobs Act del Pd renziano. "È una posizione piuttosto stupefacente se si considerano gli esiti statistici di quella riforma – spiega Emmanuele Massagli, Presidente di Adapt, il centro studi fondato da Marco Biagi -. La stagione del Jobs Act, riforma aiutata dalla straordinaria decontribuzione per nuove assunzioni del 2015 e dalle tendenze economiche positive di allora, è stata, tra quelle recenti, quella nella quale sono maggiormente cresciuti i contratti a tempo indeterminato". Non è da meno Maurizio Del Conte, ordinario di Diritto del lavoro alla Bocconi, tra i registi di quel complessivo riassetto delle regole del mercato del lavoro.

"Sembra di capire che l’accusa mossa al Jobs Act sia di aver precarizzato il lavoro – avvisa –. Ma se, da un lato, non esiste alcuna evidenza empirica a sostegno di questa tesi, è vero al contrario che proprio grazie alle norme di contrasto al precariato contenute nella riforma è stato possibile estendere l’applicazione delle tutele del lavoro subordinato a chi ne era escluso. Esemplare è il caso dei rider, equiparati dalla Corte di Cassazione a lavoratori dipendenti proprio in applicazione di una delle più importanti – e taciute - novità introdotte dal Jobs Act". Il punto è che, nella stratificazione delle norme del lavoro in Italia, risulta estremamente complicato orientarsi. Dalla legge Biagi di inizio secolo alla riforma Fornero del 2012, a quella di Matteo Renzi del 2015, fino al Decreto Dignità voluto dai grillini e prodotto di fatto dall’attuale Presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, è stato un susseguirsi di regole che hanno creato una vera giungla, resa ancora più impervia dalla sospensione di numerosi vincoli e limiti (sui contratti a termine) nel periodo della pandemia.

Tant’è che risulta praticamente impossibile stabilire l’origine del recente record per i dipendenti a termine che, a luglio, hanno toccato quota 3 milioni 166 mila. E lo stesso discorso vale per gli stage e i tirocini gratuiti che producono anni e anni di precariato male o non retribuito, o per il part-time involontario, anch’esso alla base del cosiddetto "lavoro povero". Certo è che il Jobs act ha prodotto otto decreti legislativi su materie molto diverse tra loro. E, come osserva Del Conte, "abolirlo significherebbe abolire gran parte delle tutele oggi garantite ai lavoratori". Tant’è che Massagli, proprio sul nodo della precarietà e delle sue cause, insiste, a sua volta: "Al contrario del Jobs Act, il Decreto Dignità promosso da Di Maio, così come prima ancora la legge Fornero sul lavoro, sono un esempio della convinzione secondo la quale per legge si possa creare occupazione, abrogando le forme contrattuali atipiche e provando a eliminare per decreto la precarietà.

Gli esiti statistici di questo modus operandi sono piuttosto evidenti: il Decreto Dignità non solo non ha arrestato la crescita dei contratti a termine, ma anche penalizzato l’occupazione complessiva". Ma Jobs Act vuol dire anche o soprattutto eliminazione dell’articolo 18. "Ma - incalza Del Conte – se si vuole ridurre quella che è stata la più articolata riforma del lavoro degli ultimi vent’anni alla sola modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, andrebbe ricordato che quella modifica è già stata superata da qualche anno, prima dal cosiddetto Decreto Dignità e poi dall’intervento della Corte costituzionale. Duque, cosa esattamente si vorrebbe superare?".