"Non posso morire, mia moglie è incinta" Mattia e la resistenza alla dittatura del Covid

Nel nuovo libro di Bruno Vespa la scoperta del Paziente Uno e la corsa contro il tempo dell’anestesista di Codogno per salvarlo

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di Bruno Vespa

"La mattina del 20 febbraio ero di turno all’ospedale di Codogno. Erano le 10. Prima di incontrare Mattia avevo studiato le immagini radiografiche dei suoi polmoni ed ero rimasta impressionata dallo sviluppo rapido e drammatico della malattia. In due soli giorni la piccolissima polmonite registrata nel polmone destro al pronto soccorso era diventata una polmonite bilaterale devastante. Dei polmoni era rimasto pochissimo. Quando vidi Mattia, aveva la mascherina facciale e il sacchettino dell’ossigeno. Mi colpirono due cose: gli occhi iniettati di sangue e un relativo benessere nel respiro, nonostante il quadro tac fosse drammatico.

Avremmo imparato a riconoscere questi dettagli in tutti gli ammalati di Covid. Dico a Mattia che la sua polmonite e peggiorata molto, dobbiamo ricoverarlo in rianimazione e intubarlo. Lui e spaventato, si commuove: ‘Dottoressa, sto morendo? Io non posso morire, perché ho una moglie incinta all’ottavo mese’. E allora che gli prometto che non morirà".

Mattia: "Io sono per i giudizi molto netti. O e bianco o e nero. Per un attimo ho pensato che fosse finita. Ma e stato solo un attimo. Mi sono fatto forza: mi risveglierò, sarò un uomo libero. Pensavo a Valentina, a Giulia che doveva nascere, ai miei genitori".

Valentina: "Ricevo la telefonata in cui mi si dice di andare in ospedale quando ero a un minuto da lì. Stavo andando a un corso preparatorio al parto. Mi dicono subito che Mattia si e aggravato e che non si riesce a capire perché i valori si siano alterati cosi rapidamente. Indosso la mascherina, entro in reparto, Mattia ha ancora il casco prima di essere intubato, ma riesce a farsi capire. Mi chiede di avvisare i suoi genitori e di non farli preoccupare troppo".

Annalisa Malara: "Stavo pensando a una polmonite di origine virale, quando mi chiama Laura Ricevuti, la collega internista che aveva avuto Mattia in reparto. "La moglie di Mattia dice di ricordare una cena con un amico tornato dalla Cina…". Valentina entra agitatissima nel mio studio. Non riesce a parlare. Tra una frase e l’altra trattiene il respiro, temo che svenga. In quel momento e di una fragilità estrema, cerco di usare parole caute per non spaventarla ulteriormente. Le dico che ci sono tante possibilità per aiutare suo marito e che il ricovero in terapia intensiva e la scelta migliore. Valentina si tranquillizza e racconta della cena avvenuta due settimane prima del ricovero del marito. Tra le tante persone c’era un collega del marito che era tornato dalla Cina quindici giorni prima. Era stato a un migliaio di chilometri da Wuhan, in una zona non epidemica. Per di più, quella sera era seduto distante da Mattia. Quel collega, peraltro, stava bene, non aveva nessuna sintomatologia.

"Il collegamento era molto labile, ma la polmonite di Mattia era strana, mai vista. Avverto il mio primario, Enrico Storti. Anche lui trova singolare lo sviluppo di questa malattia. Vorrei fare un tampone, ma non e previsto dal protocollo. Anzi, fino a pochi giorni prima l’Istituto superiore

di sanita prevedeva la possibilità di fare tamponi in caso di polmoniti gravi senza una causa nota, ma poi il protocollo era stato corretto: il tampone era riservato ai pazienti tornati dalla Cina nelle due settimane precedenti o affetti da Coronavirus. Mattia non rientrava in nessuna delle due categorie, ma dico a Storti che non possiamo escludere che sia stato raggiunto dal virus. "Se pensi che sia una polmonite virale, facciamo il tampone" mi risponde. Tuttavia ci poniamo il problema di non creare allarmismo.

"Chiamiamo l’ospedale Sacco a Milano e l’Ats Lombardia, l’Agenzia per la tutela della salute. Mi ripetono che il protocollo

non prevede tamponi. Alla fine, tra l’incredulità e lo scetticismo, mi dicono: se ritiene di doverlo fare, lo faccia. Isoliamo Mattia come se fosse positivo, noi ci bardiamo come si conviene e gli facciamo il tampone. Alle 12.30 di giovedì 20 febbraio il tampone parte per il Sacco. Alle 21 mi chiama Valeria Micheli, virologa di guardia all’ospedale milanese: "È positivo". Una soddisfazione professionale? Si, ma un colpo durissimo sul piano personale: ho sperato fino all’ultimo di essermi sbagliata".