No, è l’atto finale della stagione più bella

Roberto

Pazzi

Alle otto di questa sera ferragostana ci coglierà il brivido della pienezza dell’estate ormai raggiunta, coscienti che il culmine della stagione più amata, quella che più somiglia a una promessa di felicità, comincia a declinare. Per di più questo torrido Ferragosto cade proprio di domenica e così la caduta dell’estate si avvalora di una notazione leopardiana in più, quella del lunedì che già incombe: "Questo di sette è il più gradito giorno, pien di speme e di gioia: diman tristezza e noia recheran l’ore, ed al travaglio usato ciascuno in suo pensier farà ritorno". Tocchiamo così una delle leggi umane più sperimentate dalla nostra esperienza, quella che fa coincidere la pienezza del possesso, la gioia del godimento di un bene, di un premio, di un amore, con la consapevolezza della sua effimera durata, con il primo avvertimento della sua rapida perdita.

Sarà per aver sentito questo tarlo che i più grandi poeti, da Saffo a Catullo, da Petrarca a Leopardi, cantano preferibilmente la prima parte della felicità, quella dell’attesa, del sogno, la fase dell’innamoramento? La stessa coscienza della fragilità della felicità, che se ne vola subito via come l’estate che tanto avevamo atteso, dopo la serrata del coronavirus, fa invocare a Dante, nel sonetto sull’amicizia e l’amore, "Guido, io vorrei che tu Lapo ed io fossimo presi per incantamento", quasi sentisse il bisogno di salvare quei sentimenti come noi vorremmo salvarci dal tarlo del tempo in un’estate eterna.