No a sguardi insistenti e doppi sensi Il codice anti molestie in Tribunale

Vicenza, approvato il regolamento con le norme di comportamento per i dipendenti. Stop anche ad apprezzamenti rozzi e carezze: "Ognuno ha diritto a lavorare sereno"

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di Viviana

Ponchia

Il collega innamorato che fa la posta alla macchinetta del caffè dovrà ripensarci. Una volta è coincidenza, dalle due in su potrebbe diventare stalking. E anche il timido che si limita a lanciare sguardi languidi da un ufficio all’altro: occhi bassi e lavorare, siete pagati per questo e non per fare i cascamorti. Non parliamo degli sfrontati che esagerano con i complimenti per un paio di jeans a pelle. O dei cafoni che danno della balena a tutte sopra la taglia 48. Va sempre bene la galanteria, ci mancherebbe. Dosata tuttavia con il contagocce del buonsenso. Un fiore per il compleanno, una precedenza con il sorriso. Ma siccome il confine è sottile e non si sa dove possa portare l’innocente amabilità, molto meglio stare zitti e tenersi dentro la tempesta di emozioni che un luogo di lavoro è in grado di scatenare.

In questo caso un tribunale con circa 200 fra dipendenti amministrativi, magistrati e giudici (più tutti i soggetti che hanno rapporti contrattuali, di appalto o di collaborazione con l’ente e il suo personale). Quello di Vicenza, dove il presidente Alberto Rizzo ha messo nero su bianco un decalogo anti molestie per punire e prima ancora prevenire scivoloni, imbarazzi e sofferenze nei rapporti interpersonali. Body shaming e catcalling o comunque si vogliano chiamare le irruzioni a gamba più o meno tesa nella sfera personale trovano lo sbarramento del "Comitato per il benessere organizzativo" composto da sette persone, in gran parte donne. Però siccome la violenza di genere funziona anche viceversa, gli uomini saranno tutelati allo stesso modo. È un salto carpiato oltre il #me too. L’inedita censura infatti non colpisce solo capisaldi della molestia universalmente considerati inaccettabili come pizzicotti (posto ci sia davvero chi ancora osa), carezze, richieste di prestazioni sessuali o proposte indecenti in cambio di vantaggi. No. Stavolta a scanso di equivoci si va a castrare l’intenzione di uno sguardo, la rozzezza di un apprezzamento, l’allusione alla vita privata e i discorsi a doppio senso.

Un universo si sgretola. La leggendaria promiscuità dove sono nati matrimoni, si sono consumati tradimenti e sono derivate tragedie greche viene cancellata in un colpo solo dalla ferma determinazione del presidente a evitare grane: "Chi lavora qui dentro ha il diritto di svolgere le sue attività in un ambiente che garantisca il rispetto della dignità di ciascuno". È la prima volta in un tribunale. Forse la prima volta di sempre. Intransigenza senza tentennamenti, perché l’interpretazione è sempre pericolosa. "Nonostante le raccomandazioni dell’Europa – spiega Rizzo – in Italia non esiste una legge specifica che indichi quali siano le condotte da vietare all’interno degli ambienti di lavoro. Da qui l’esigenza di dotarci di un codice che garantisca a tutti, donne ma anche uomini, un palazzo di giustizia protetto non soltanto dalla molestia o ancora peggio dai ricatti di natura sessuale, ma anche da tutti quegli atteggiamenti che possono risultare umilianti o fastidiosi per chi li subisce".

Il punto è chiaro: "Parliamo di un luogo di lavoro e non di corteggiamento, né tanto meno di condotte discriminatorie o lesive". I sette consiglieri chiamati a vigilare sul rispetto delle norme frequenteranno corsi con esperti del settore e oltre a raccogliere eventuali denunce faranno il possibile per stimolare comportamenti responsabili. Spiega il presidente Rizzo: "In base all’articolo 26 comma ter del codice delle pari opportunità io, come datore di lavoro, devo preoccuparmi della dignità dei lavoratori esattamente come mi preoccupo di parapetti e rampe antiscivolo". Basta battute, buffetti, machismo e goliardia. C’è chi la vede come luce al fondo del tunnel e chi calcola quanto manca alla pensione.