di Giovanni Rossi
Il giorno dopo la beffa atroce del veto allo sci, la montagna italiana offre un panorama di indignazione. E di ribellione, in qualche caso. In Lombardia, a Livigno, gli sciatori scelgono piste con partenza e arrivo servite dalla strada e con taxi e mezzi privati sostituiscono gli skilift. In Piemonte, a Bardonecchia, le campane della chiesa accompagnano la protesta dei maestri di sci e la serrata dei negozi, mentre in Val Vigezzo la società di gestione sfrutta il ritardo nella comunicazione del prefetto per aprire le piste alla clientela. Alle 10.46 lo stop diventa ufficiale e la stazione smette di vendere skipass, ma senza bloccare l’attività perché la gente ormai è in pista. I carabinieri si limitano a verificare che non si formino assembramenti. Nessuna sanzione. "Volevamo dare un segnale: non ci si può comportare in questo modo – dice l’amministratore Luca Mantovani –. Sabato abbiamo assunto dieci persone e io devo pagare i contributi". Immediato il paragone con la Francia: "Lì gli impianti sono chiusi e nessuno protesta, perché le autorità hanno preso i dati degli ultimi tre anni e hanno bonificato il 70%: io mi accontenterei del 40%". La stazione ossolana, come quasi dappertutto nelle Alpi e negli Appennini, resterà a disposizione di ciaspolatori e scialpinisti. Ma il danno economico prodotto dalla tardiva decisione del governo appare devastante per tutta la filiera.
Secondo Coldiretti, il turismo invernale sulle piste vale 10-12 miliardi annui, incluso l’indotto dagli agriturismi alle malghe. A Pasqua i conti saranno definitivi con una perdita complessiva di fatturato attorno al 90%. Confesercenti offre stime analoghe, con un calo di pernottamenti dell’85% e una flessione di almeno 18 milioni di presenze. Sentimenti di rabbia accomunano gestori funiviari, titolari degli alberghi, cuochi, camerieri e stagionali destinati al licenziamento: lavoratori in molti casi venuti dall’estero con largo anticipo per ragioni di quarantena.
Un mondo al collasso. Senza contare la corsa al rimborso degli skipass (dovuto) e dei soggiorni alberghieri. E qui la questione è invece assai scivolosa, perché tutto dipende dalle condizioni stipulate: gli alberghi infatti restano aperti e la causale Covid non può essere invocata. Molto dipende dalla volontà degli albergatori (che per tenersi la clientela potrebbero considerare le caparre o i saldi validi per il 2021-2022) o dalle condizioni negoziate con gli intermediari. Le associazioni dei consumatori puntano dritte al governo: "Anche i turisti vanno indennizzati". Il caso è aperto.
Anche per questo, secondo il governatore veneto Luca Zaia, non si può più parlare solo di ristori Covid ma di risarcimento danni "per i costi relativi all’apertura dell’attività" intempestivamente bloccata. "Dopo questa ordinanza decisa quattro ore prima dell’apertura delle piste – continua il governatore facendo presente che in Veneto si scia anche in notturna – è probabile che molte aziende non riaprano più". "Il mio pensiero – prosegue Zaia – va soprattutto ai molti stagionali ora senza lavoro e senza alcun diritto ai ristori. Abbiamo l’obbligo morale di pensare a queste persone". ll Piemonte solidarizza coi suoi centri alpini e valuta di costituirsi parte civile al fianco dei gestori per ottenere "indennizzi".
Il governatore dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini è preoccupato: guarda all’Appennino, dove "ci sono anche impianti sciistici comunali che vanno a pesare sulla pubblica amministrazione", e invoca "ristori importanti non solo alle società di gestione ma anche ad alberghi, bar, ristoranti, noleggi, scuole sci".