Venerdì 19 Aprile 2024

Niente russi sull’erba di Wimbledon I grandi del tennis in rivolta: è follia

Dal no vax Djokovic al ribelle Panatta, il coro contro la stretta inglese. "È sbagliato punire i singoli". L’appello della campionessa ucraina Svitolina: facciamo partecipare al torneo solo chi condanna Putin

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di Leo

Turrini

Sempre lì torniamo. Alla eterna sovrapposizione, che poi diventa contrapposizione, tra sport e politica. Tra campioni e governi. Tra errori sul campo e orrori di guerra.

In breve. Fa discutere (e ci mancherebbe altro!) la decisione degli organizzatori del torneo di Wimbledon, il più prestigioso appuntamento tennistico, di escludere dalla lista dei partecipanti quanti siano cittadini provenienti dalla Russia e della Bielorussia. Una scelta non inattesa, ma nemmeno inevitabile. Una decisione che estende anche ai singoli le misure già adottate, a livello globale, nei confronti delle squadre nazionali di Mosca e di Minsk. Per intenderci, la Russia è già stata buttata fuori dai campionati mondiali di calcio che si svolgeranno in Qatar, così come le è stata sottratta l’organizzazione dei Mondiali di pallavolo.

Ma i singoli, gli individui? "Non è giusto punirli", ha spiegato ad esempio Adriano Panatta, l’eroe azzurro di una Coppa Davis vinta indossando una maglietta rossa nella Santiago di un Cile massacrato dal dittatore Pinochet: "Le colpe dei padri non debbono essere pagate dai figli", ha commentato Adriano nostro. E il serbo Novak Djokovic, numero uno del mondo della racchetta e già protagonista della penosa telenovela vaccinale, ha aggiunto: "Io sono un figlio della guerra, sono cresciuto nella ex Jugoslavia dilaniata dai conflitti. Non c’entravo niente, come non c’entrano niente oggi i miei colleghi e le mie colleghe che hanno in tasca il passaporto russo".

Ora, se siete arrivati fin qui facciamo una breve pausa, intesa come omaggio alla ipocrisia. Appena due mesi, all’inizio della tragedia Ucraina, la Formula Uno ha deliberato di mettere a piedi tale Nikita Mazepin, pilota russo della scuderia americana Haas. Poiché costui non è esattamente un campione – cioè non è paragonabile a Daniil Medvedev e a Andrej Rublev con la racchetta in mano –, ecco, nessuno ha detto una parola. E qualcuno sommessamente ha chiesto: ma se Lewis Hamilton e Carletto Leclerc fossero stati due connazionali del presidente russo Vladimir Putin, il silenzio sarebbe stato altrettanto assordante?…

Dunque, prima delle grandi questioni di principio, qui si avverte l’esigenza di salvaguardare l’onestà intellettuale. Una decisione sbagliata, se tale la riteniamo, è sbagliata chiunque ne sia il destinatario: altrimenti non vale.

Chiarito ciò, possiamo tornare al punto di partenza. Alla sovrapposizione che si fa contrapposizione tra sport e politica. Anche qui, siamo alla scoperta dell’acqua calda: nel senso che da sempre i regimi autoritari usano i loro campioni come veicolo propagandistico. Benito Mussolini lo faceva con Primo Carnera, il pugile, e Giuseppe Meazza, il calciatore. Lo zar Putin ha truccato le Olimpiadi invernali di Sochi del 2014, imbrogliando sul doping per gonfiare il medagliere russo. L’uso strumentale delle imprese agonistiche internazionali è un classico, nelle dittature (nelle vituperate democrazie, al massimo sventoliamo le bandiere intasando le piazze).

Non è stato l’ex numero uno Medvedev a bombardare Mariupol, no. Vada pure sull’erba di Wimbledon, magari ricordando la lezione di Gino Bartali, il ciclista che vinse il suo primo Tour de France nel 1938. Il Duce lo invitò a palazzo a Roma ma Ginettaccio rispose: "Però la camicia nera io non la indosso". La polizia segreta lo iscrisse nella lista dei sospetti antifascisti. Ma vuoi mettere?