Netanyahu, maggioranza vicina Ma vola l’ultradestra religiosa

Secondo gli exit poll, la coalizione dell’ex premier conquista 61 seggi, il blocco centrista fermo a 54. Bibi: "Aspettiamo lo spoglio completo". Nel Paese restano l’instabilità e il rischio di nuove elezioni

di Aldo Baquis

Netanyahu vicino a una maggioranza risicata, secondo gli exit poll. Al termine della quinta tornata elettorale in tre anni e mezzo (con un’affluenza al 71,3%, la più alta dal 2015), il leader del Likud, Benjamin Netanyahu, sembra in grado di conseguire una maggioranza risicata (61-62 seggi sui 120 della Knesset). "È un buon inizio", il commento a caldo dell’ex premier e capo dell’opposizione. "Tuttavia – ha aggiunto – occorre aspettare la fine dello spoglio dei voti". "Bisogna inoltre che si tratti di risultati genuini e che non ci siano falsi", ha sottolineato. Ancora più evidente il successo del ‘Sionismo religioso’ di Itamar Ben Gvir (14 seggi), legato al movimento dei coloni e alla destra radicale. L’attuale premier centrista Yair Lapid ha ottenuto un buon risultato (24 seggi), mentre resta incerta la situazione nell’elettorato arabo che, in definitiva, potrebbe spostare gli equilibri a suo favore.

Israele si conferma così ancora una volta un Paese sostanzialmente diviso fra due culture politiche: quella intrinsecamente laica, legata alla difesa del regime istituzionale che lo ha contraddistinto finora – espressa da Lapid – e quella elaborata gradualmente da Netanyahu che si avvale dell’appoggio degli ebrei ortodossi e dei nazional-religiosi del movimento dei coloni, e che vorrebbe adesso apportare una profonda revisione ai rapporti fra il potere politico e il giudiziario a vantaggio del primo. Come ha sintetizzato il leader del partito ortodosso Shas, Aryeh Deri: "La scelta è fra uno Stato ‘israeliano’ e uno Stato prettamente ‘ebraico’". I sostenitori di Netanyahu vorrebbero adesso imporre la nuova direzione, e possibilmente annullare il processo al tribunale di Gerusalemme che vede Netanyahu incriminato per corruzione, frode e abuso di potere.

All’origine della grande instabilità del sistema politico israeliano vi è la straordinaria frammentazione della Knesset, dove 120 deputati rappresentano fino a 12-14 partiti e dove è quasi impossibile raggiungere una maggioranza stabile. Il governo uscente di Naftali Bennett (e poi di Yair Lapid) era composto da ben otto liste eterogenee, che disponevano appena di 61-62 seggi sui 120 della Knesset. Sono passati i tempi in cui i laburisti e il Likud si affrontavano a forze pari.

Nel corso degli anni il partito laburista si è disintegrato, mentre il Likud ha mantenuto la propria forza ma ha radicalmente cambiato volto. Quello che ai tempi di Menachem Begin e di Yitzhak Shamir era un partito conservatore, sotto la guida di Netanyahu si è diretto verso posizioni di destra radicale e di opposizione alle cosiddette ‘elites’: in particolare la magistratura – che ha gestito la incriminazione di Netanyahu – e la Corte Suprema. Secondo Netanyahu quel processo è stato "costruito ad arte" per estrometterlo dal potere, in una operazione gestita a suo parere in sintonia dalla pubblica accusa e da influenti mezzi di comunicazione.