Netanyahu: ieri, oggi, domani. Impegnato a misurarsi con la crisi più grave di Israele dalla sua fondazione, il premier che ha dominato la politica locale negli
ultimi 15 anni non lascia finora alcun dubbio sul fatto che intenda restare al timone e dirigere in prima persona la reazione "potente, micidiale" contro Hamas dopo le stragi del 7 ottobre. "Quella è stata la pagina più nera nelle nostra Storia. Questo fallimento – ha detto alla nazione – sarà investigato a fondo. Tutti dovranno allora dare risposte. Anche io. Ma ciò accadrà dopo la fine della guerra".
Se qualcuno in Israele pensava che Netanyahu volesse farsi da parte, lui stesso ha fugato ogni dubbio: "Come premier sono responsabile per il futuro del Paese. Oggi la mia responsabilità è riportare una vittoria schiacciante sul nemico". Ma i suoi avversari – che per nove mesi si sono mobilitati nelle piazze contro la sua riforma giudiziaria, da loro reputata una minaccia potenziale alla democrazia di Israele – continuano ad insistere affinché Netanyahu si assuma pubblicamente le responsabilità per la sorpresa inflitta da Hamas che in poche ore ha messo in ginocchio il Paese. Così, ricordano, fecero Golda Meir dopo la l’attacco a sorpresa siro-egiziano della guerra del Kippur (1973) e così fece Menachem Begin quando la guerra in Libano si dimostrò disastrosa (1983).
Netanyahu però non appare incline ad ammettere di aver compiuto errori. Ancora mercoledì, in televisione, ha sostenuto: "Oggi molti comprendono quanto affermo dal 2014: che Hamas è l’Isis e l’Isis è Hamas". Negli anni successivi, tuttavia, avrebbe egualmente consentito al Qatar di finanziare le strutture di Hamas a Gaza, mentre Iran e Hezbollah intensificavano il ritmo delle forniture militari e degli addestramenti della sua ala militare. Molti giornalisti israeliani vorrebbero adesso interrogare Netanyahu per comprendere se la sua politica di tacita accettazione di Hamas e di sistematico indebolimento di Abu Mazen in Cisgiordania non sia stata un errore cardine per Israele. Ma da gennaio il premier non concede interviste ai media israeliani, ritenendoli prevenuti nei suoi confronti. E anche adesso, dopo la morte di 1.400 militari e civili e dopo tre settimane di guerra, si nega ostinatamente ai microfoni.
Di fronte alla sede del ministero della difesa a Tel Aviv si moltiplicano intanto le toccanti manifestazioni dei congiunti degli oltre 220 ostaggi catturati da Hamas. Fra essi ci sono bambini, donne incinte, anziani, sopravvissuti alla Shoah. "È nostro dovere morale supremo riportarli indietro", ha ribadito ieri il ministro della difesa Yoav Gallant. Il timore profondo dei congiunti è che se Israele lanciasse adesso un’operazione di terra le vite dei loro cari sarebbero condannate. In effetti i vertici militari prendono tempo: sia per verificare se sia possibile un accordo con la mediazione di Qatar ed Egitto (ostaggi in cambio di combustibile per la Striscia), sia per consentire agli Stati Uniti di far affluire nella regione forze di sostegno, dopo che l’Iran ha attivato in varie zone le milizie che lo fiancheggiano.
Ma anche se ritarda, l’operazione di terra avverrà, ribadiscono le forze armate. "Con quelle terribili efferatezze – ha detto Gallant – Hamas vorrebbe imporci un deterrente: cioè distruggere in noi ogni desiderio di restare su questo lembo di terra. Per questo la nostra vittoria è imperativa. O noi, o loro. Il mio incarico è di condurre il Paese alla vittoria su Hamas-Isis, sulla incarnazione del Male".