Un neonato di 10 giorni è stato estratto vivo dalle macerie, in Turchia, a quattro giorni dal sisma. In altre operazioni di soccorso, in circostanze analoghe, sono stati salvati in extremis un lattante di due mesi, e un bambino di due anni. Casi limite, come si spiegano? Ne parliamo con Massimo Agosti, vicepresidente della Sin, Società italiana di neonatologia, cattedratico di pediatria all’Università dell’Insubria.
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Professore, come fa a resistere un corpicino così tante ore al buio, sotto terra?
"Succede perché il bambino è una macchina meravigliosa. Questa notizia del ritrovamento ha colpito tutti noi del direttivo della Sin, nel nostro gruppo ci siamo interrogati proprio sulle capacità di sopravvivere in situazioni estreme a distanza di giorni".
Che risposta vi siete dati?
"Una volta superata la fase di assestamento legata al passaggio alla vita extrauterina si instaurano, nel neonato, dei meccanismi metabolici di compenso molto efficienti. In pratica è una macchina nuova che si mette in moto, come un’auto in rodaggio ai bassi regimi si attivano dei meccanismi di risparmio energetico, tecnicamente si parla di abbassamento del metabolismo basale".
Questo basta a spiegare tanta capacità di adattamento nella specie umana?
"C’è anche dell’altro. Probabilmente, nella tragedia, si sono susseguite una serie di coincidenze fortunate. Se la temperatura si abbassa a zero gradi, manca l’ossigeno, o si producono traumi da schiacciamento e ferite, si può facilmente immaginare come andrà a finire. Ma se nel crollo si crea una bolla d’aria, e l’escursione termica è contenuta, ecco che si creano delle condizioni meteo climatiche compatibili".
Scongiurato il rischio di morire assiderati, subentra la disidratazione.
"Ovviamente in quella sorta di grotta tra le macerie si può andare avanti per un tempo relativo, anche se il motore dell’organismo va al minimo e consuma poco. Nel caso del neonato è verosimile che, data la vicinanza della madre, il piccolo abbia continuato a prendere il latte, e sia stato protetto del calore materno".
I bambini più grandicelli, che sono sopravvissuti, erano soli.
"Parliamo sempre di circostanze eccezionali, in quei casi subentra anche una componente genetica, una variabilità individuale. L’istinto di sopravvivenza, poi, fa la differenza".
Quindi c’è pure una componente psicologica?
"Indubbiamente, c’è sempre quel filo di speranza che ci fa andare avanti, confidando nella solidarietà umana. Sono stato tre volte ad Haiti, con la Fondazione Francesca Rava, come medico volontario, e ho ben presente le dinamiche che si instaurano, specialmente nei bambini che si ritrovano senza genitori".
I bimbi orfani riusciranno a superare il trauma?
"Dipende. Dal punto di vista affettivo ci saranno dei vuoti dal colmare, per centinaia o migliaia di bambini si dovrà provvedere con affidi temporanei e adozioni. I ricordi dolorosi riemergeranno nell’età adulta, e i lutti dovranno essere elaborati".