Nazione sfasciata dalla riforma del Titolo V

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Gabriele

Canè

Se fosse vera unità, sarebbe una vera festa. Così, invece, sul 160esimo anniversario sventola simbolicamente una bandiera listata a lutto. Perché è vero che il tricolore ci riscalda, che l’Italia, c’è, esiste, si è fusa, consolidata dal 17 marzo 1861. Ci mancherebbe. Dobbiamo rivendicarlo con orgoglio. Ma è altrettanto certo che nell’ultimo ventennio tanto è stato fatto per dividerla, parcellizzarla. Finendo per avere un Paese che non è né centralista, né federalista: semplicemente in ordine sparso. Anche di fronte a problemi comuni da nord a sud, a tragedie collettive come una pandemia. Frutto di quella sciagurata revisione del titolo quinto della Costituzione fatta con un pugno di voti dal centrosinistra il 18 ottobre del 2001 per tendere la mano alla Lega di Bossi. Per italianizzare la Padania. Intento con una logica, finito però per diventare una sorta di lotteria, con estrazione a casaccio delle competenze: questa a te, questo a me, questo alle Regioni, quest’altro allo Stato. Così abbiamo, tra l’altro, 20 sanità, 20 criteri di assistenza, 20 approcci alle vaccinazioni, come se ci fossero 20 Covid. Un disastro sul piano organizzativo-istituzionale di cui, con la Babele da virus, ci stiamo per forza rendendo conto. Un’Italia in "frantumi sanitari", ma anche turistici, ad esempio, che oggi ricorda (e rimpiange) la sua unità. Con l’impegno che fra 10 anni non ci siano bandiere listate a lutto se non per i nostri morti. E che possa essere vera festa nazionale.