Mollica: "Io e Camilleri, le nostre vite sempre a colori"

Il giornalista racconta l’amico scrittore morto un anno fa: uniti dall’affetto e da una malattia alla vista. Mi ha insegnato l’arte di non vedere.

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Da un anno siamo senza Andrea Camilleri. La sua voce rauca, sonora, arrotata da mille milioni di sigarette, non c’è più. Non c’è più chi potrà inventare nuove avventure per il commissario più umano, più capace di guardare nelle profondità dell’anima che la letteratura italiana abbia conosciuto. Non c’è la sua ironia, non ci saranno quei suoi interventi, le interviste concesse da una casa piena di libri. La semplicità con cui sapeva descrivere i concetti più difficili. Ha raccontato la sua Sicilia, lui che non ci viveva più, come un mondo intero, ricco, denso di personaggi, di cibi, di sapori, di colori.

Spesso, da anni, Camilleri parlava con Vincenzo Mollica, 67 anni, inviato della Rai, giornalista di rara sensibilità che proprio allo scrittore ha dedicato la vittoria del premio Bianchi. Insieme, Camilleri e Mollica vivevano anche il dolore di non poter più vedere i colori del mondo come una volta.

Parlavate spesso con Camilleri. Che cosa vi dicevate?

"Camilleri mi ha insegnato l’arte di non vedere. Di vedere anche se non ci vedo. Parlavamo spesso della nostra malattia, e lui mi raccontava di come, la sera, pensasse a un quadro, e cercasse di riprodurne nella mente i colori, colori vividi, accesi. La notte, faceva sogni colorati, e al mattino aveva ancora negli occhi quei colori. Camilleri mi ha insegnato che si vede anche con l’udito: che si possono apprezzare i film, per esempio, anche senza vedere. Lui non ci vedeva più, ma riusciva ad apprezzare i film. La performance di un attore, la capisci persino meglio se non lo vedi".

A Camilleri lei era molto legato. Parlavate della vita, della letteratura. Che frase ricorda di lui?

"Mi fece molto sorridere quando mi disse: “Non si può essere contemporanei per tutta la vita”. E aggiungeva: ho smesso di essere contemporaneo quando hanno inventato la minigonna, e ancora di più quando i Beatles si sono sciolti".

E lei, quando ha smesso di essere contemporaneo?

"Io non so neppure se lo sono mai stato".

Che cosa ammirava di Camilleri?

"La grazia della sua scrittura, la sua musicalità, la sua dolcezza nel raccontare ogni personaggio, il suo pudore".

La sua vista?

"Come quella di Totò. Qualche ombra, e qualche figura nella periferia del campo visivo. Come Camilleri anch’io non posso più leggere né scrivere, non posso disegnare se non scarabocchi. Ma non mi preoccupo, non ho paura. Me lo ha insegnato lui: quando arriverà il buio, lo accetterò".

Che cosa amava, Camilleri, del suo personaggio di Montalbano?

"Mi diceva sempre che amava, di Salvo Montalbano, una lealtà di fondo. Un suo essere come noi, ma non vile, non pusillanime: una persona perbene, niente di meno e niente di più".

Lei scriverà mai una sua autobiografia?

"Ho in mente il titolo: ’Prima che mi dimentichi di tutto’. Il testo saranno tutte pagine bianche, perché avrò già dimenticato".

Ha intervistato i più grandi, nel cinema. Quale attore sentiva più vicino?

"Marcello Mastroianni. Per la sua ironia, la sua semplicità, la sua delicatezza. La sua educazione. E Sophia Loren, una donna bellissima ma anche di rara intelligenza. Mi ha sempre colpito la sua timidezza".

La fede le appartiene?

"Come mi disse Vittorio Gassman nella sua ultima intervista , ”Ogni tanto parlo col capoccia, ma a modo mio”. Sì, sono credente, da sempre".

Lei ha paura del futuro, del buio?

"No. Penso a una canzone di Doris Day, che dice ‘Che sarà, sarà’. Penso la stessa cosa. E penso ad Andrea".