Giovedì 25 Aprile 2024

"Mio padre Concetto, arbitro e galantuomo Il suo fischietto era come una sentenza"

"Incarnava l’onore e imponeva il rispetto delle regole. Fui guardalinee nella sua ultima prova, la finale di Coppa Uefa del 1974. Niente lo scalfiva: fece giocare una partita a Napoli con 5mila persone ai bordi del campo. Rispettava Boniperti, un signore come lui"

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di Massimo Cutò

Chi era Concetto Lo Bello? "Era mio padre. Era il rigore, la regola, l’onore. Duro e splendente come un diamante, dissero di lui. Uomo e galantuomo in campo e fuori". Rosario Lo Bello, 75 anni, è figlio d’arte. È stato arbitro di calcio: 195 presenze in serie A, internazionale, grandi classiche e sfide scudetto. Mai come il padre, però. Perché Concetto Lo Bello, scomparso a 67 anni nel ‘91 era un fuoriclasse. L’archetipo. Il simbolo. Incuteva timore, otteneva rispetto: bastava lo sguardo o un gesto della mano per mettere ordine tra i 22 giocatori. Amato e detestato. Brera lo definì "un po’ Dionisio, tiranno di Siracusa, un po’ Abdel el Karim, pirata saraceno". Enzo Tortora scriveva: "Come Venere nasce dalla spuma di un mare greco: è, forse, l’unico iddio mediterraneo che ci rimanga". Siciliano nell’anima e nei tratti, nato nel 1924 a Siracusa, è stato l’arbitro più famoso di tutti i tempi. I record sono irripetibili: 328 partite in serie A, 93 match internazionali. Ha diretto le partitissime di tutte le coppe, lo spareggio Bologna-Inter del ‘64 e la finale olimpica a Roma 1960. Ha chiuso con il calcio il 29 maggio 1974 a Rotterdam, finale di Coppa Uefa: aveva 50 anni e 16 giorni, altro primato.

Rosario, perché quella partita è stata indimenticabile?

"Fu la sua ultima e una staffetta. Mi volle guardalinee: padre e figlio insieme, non era mai successo. Pietro Nicolosi, che era stato il suo assistente storico e poi sarebbe diventato il mio, mi affidò la bandierina".

Un’emozione particolare?

"Enorme. All’inizio, segnalando un fuorigioco, la bandierina mi volò di mano. Lui si avvicinò tranquillo e mormorò: non è niente, raccoglila e continuiamo".

Padrone della situazione?

"Pareva che niente lo scalfisse. Una domenica del ‘58 portò a termine un epico Napoli-Juve. Lo stadio del Vomero traboccava di folla: 50mila sugli spalti e 5mila attorno al terreno. Poteva accadere di tutto. Con calma decise: via, si gioca".

Montanelli scrisse: entra in campo con il passo di un proprietario che perlustra il proprio podere.

"Si riferiva a Fiorentina-Inter del ‘61. Successe il finimondo, mio padre cacciò il viola Petris e concesse due rigori ai milanesi. Il pubblico inferocito scandiva: duce, duce. Lo assediarono. Eppure Montanelli commentò: Lo Bello non è il duce, casomai è il duce che può aspirare a essere scambiato per Lo Bello, non viceversa".

Il suo fischio era una sentenza?

"Juliano, capitano del Napoli, diceva che quel sibilo era inconfondibile. Carlo Grandini sul Corriere della Sera lo paragonò al suono della tromba di Armstrong".

Non sbagliava mai?

"Il direttore di gara non è infallibile, lui lo era. E se non lo era, umanizzava l’errore. Gli arbitri non potevano parlare. Concetto invece andò alla Domenica Sportiva nel ‘72 dopo uno Juve-Milan rovente".

Che cosa era accaduto?

"Il difensore bianconero Morini aveva strattonato Bigon in area, buttandolo giù. Papà non fischiò il rigore. Rivedendo le immagini rallentate con Pizzul, Sassi e Vitaletti ammise in diretta: il giocatore è stato più furbo di me, che d’altra parte non avevo la moviola. Solo lui poteva dirlo".

Aveva un calciatore preferito?

"Boniperti. Si davano del tu, un’eccezione. Stessa signorilità".

E gli altri?

"Amava molto Mazzola. Stimava Picchi per la lealtà. Durante un Inter-Roma fu costretto a espellerlo, gli sorrise con ironia: caro Armandino, mi sa proprio che ci dobbiamo salutare".

Il più cattivo?

"Sivori era un funambolo provocatore. I loro faccia a faccia erano aspri, la grinta di mio padre pareggiava quella dell’argentino".

E con Riva?

"Juventus-Cagliari del ‘70, in palio lo scudetto. Mancava poco alla fine. Sull’uno a uno Lo Bello diede un rigore alla Juve, Albertosi parò e lui lo fece ripetere. Gol. Riva gliene disse di tutti i colori. Mio padre fece finta di niente ringhiando: pensa a correre e a giocare. Riva segnò la rete del pareggio su rigore".

Parliamo di Rivera?

"Ha accusato me e mio padre di aver tolto al Milan due scudetti nel ‘73 e nel ‘90. Io finii alla gogna per aver espulso Van Basten, Rijkaard, Costacurta e Sacchi in panchina: la seconda fatal Verona dei rossoneri. Rivera rievocò il campionato di 17 anni prima e arringò i giornalisti: spero che la famiglia Lo Bello abbia solo figlie femmine".

Concetto interpretava il regolamento a modo suo?

"Lo seguiva e lo innovava. Suarez uscì in barella moribondo e un minuto dopo rientrò come resuscitato. Fu ammonito per simulazione, infrazione riconosciuta solo più tardi nel codice calcistico".

L’inflessibilità gli creò guai?

"In una partita fischiò tre rigori contro la Spal. Il ministro alle Finanze, il ferrarese Preti, aprì un’indagine fiscale su di lui".

Si prese la rivincita diventando deputato della Dc?

"Quattro legislature a partire dal ‘72. Valanghe di voti, anche dei comunisti. Ha rappresentato il riscatto del Sud, si curava della gente e aveva il piacere dell’onestà. Nel ‘66 arbitrò a Madrid la finale di Coppa Intercontinentale tra Real e Peñarol, rifiutando un orologio d’oro dal presidente Santiago Bernabeu. Era incorruttibile".

Che cosa lo rendeva speciale?

"Il senso di giustizia. Il portamento, la fa*lcata. Il carisma e il magnetismo. Brera lo affiancava a Toscanini, Visconti, Strehler, Von Karajan. Se ammoniva un giocatore si avvicinava con lentezza misurata. O sventolava imperiosamente il cartellino. Creava l’attesa. Era un grande attore che si ispirava ad Amedeo Nazzari".

Lando Buzzanca l’ha interpretato al cinema: come la prese?

"Il personaggio dell’arbitro Lo Cascio di Acireale era cucito su di lui. Si sono conosciuti nella preparazione del film, papà era molto divertito".

Che cosa le resta di Concetto?

"Il ricordo di me ragazzino quando mi portava alle partite. L’emozione di quell’angolino dove mi accucciavo all’uscita del sottopassaggio. L’odore dell’olio canforato, il rumore dei tacchetti nei corridoi, il boato del pubblico, il profumo dell’erba, i colori, i suoni. La foto con Puskas. L’orgoglio e la responsabilità".

La stimava come arbitro?

"Mi imbarazzava dicendo: Rosario è più bravo di me. Mentiva, era solo felice che fossi diventato arbitro. Il tumore al pancreas se lo mangiava, il chirurgo a Pavia mi spiegò: ha due settimane di vita. Se avessi acconsentito all’operazione poteva guadagnare qualche mese. L’intervento durò 12 ore, era intubato, aprì gli occhi e mi vide sfinito su una sedia. Fece un cenno a mia sorella Franca e mormorò: cosa ci fa quello ancora qui, prenda l’aereo e vada ad arbitrare. La domenica diressi il derby Roma-Lazio. Nel nome del padre, del figlio e dello spirito santo".