Giovedì 18 Aprile 2024

Michele: "Quei sei mesi di amore con Patty Pravo"

Un milione di copie con la sua canzone più nota. E non è ancora sceso dal palco: "Però il Covid è stato devastante". Il primo disco a 14 anni, poi il successo col Cantagiro: "Entusiasmo travolgente. Amici? Tanti, soprattutto De Andrè".

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Ne ha viste tante Gianfranco Michele Maisano, per tutti semplicemente Michele. Nel 1958, a soli 14 anni, incide il primo disco da enfant prodige. È l’inizio di un’interminabile carriera che continua tutt’ora. Michele ha uno studio di registrazione nella sua Genova, è presidente dell’Ital Show, è impegnato nelle serate. "Anche se il Covid – spiega – è stato devastante. Avevo una ventina di appuntamenti per luglio e agosto e ne faccio soltanto quattro". Ma partiamo dal passato.

Chi ha vissuto, come lei, l’Italia del boom ha nostalgia di quel periodo magico ?

"Non è un semplice amarcord. Il nostro Paese era spensierato, la gente aveva grandi progetti. C’era un clima bellissimo, di grande eccitazione e la musica era lo specchio di un’Italia che cresceva. I numeri parlano chiaro. Negli anni ’50 e ’60 eravamo grandi esportatori di musica. Ora siamo grandi importatori di prodotti anglofoni e di lingua spagnola e non siamo più in grado di veicolare nulla per il mondo. È sbagliato l’approccio".

Anno 1963. Lei vince il Cantagiro con Se mi vuoi lasciare. È l’inizio di una grande cavalcata che fa conoscere Michele in tutto il mondo.

"Il maestro Gian Piero Reverberi ha sempre creduto in me. In Italia vendemmo un milione di copie, andammo in classifica in tutto il mondo, in Argentina e in Cile fino al primo posto. Era un brano di taglio internazionale, dietro c’era un lavoro di grandi professionisti. Sceglievano il cantante di qualità e gli affiancavano il paroliere e il musicista. Col prodotto fatto, lo step successivo era l’arrangiamento. Tre anni dopo presentai Dite a Laura che l’amo, ci fu il debutto nel tempio parigino Olympia. Periodo indimenticabile".

Il Cantagiro era la grande scoperta di Ezio Radaelli, un tour in musica che unificava idealmente l’Italia.

"Un’idea geniale, un format che era quello del Giro d’Italia di ciclismo rivisitato in chiave musicale. Erano tre settimane intensissime ma molto vissute. Ti fermavi durante il tragitto, distribuivi cartoline e autografi. Misuravi il gradimento che avevi tra la gente. Non c’erano i selfie ma l’entusiasmo era travolgente".

Lei preferiva il Cantagiro al Festival di Sanremo. Perché?

"Ho partecipato due volte a Sanremo, nel 1970 e due anni dopo, ma non sono state esperienze memorabili. Amavo il Cantagiro, che ho vinto anche perché le mie canzoni andavano ascoltate più volte e non si metabolizzavano in due serate come al Festival. Al Cantagiro poi c’erano spazio e gloria per tutti".

E c’era anche spazio per scherzi e goliardate tra di voi.

"Soprattutto tra gli uomini. I più esuberanti eravamo io, Dino, Gianni Morandi e trascinavamo anche il più serioso Gino Paoli che quando si scatenava era inarrestabile. Pensi che uno degli sponsor era un’azienda che produceva uova: ogni mattino per contratto dovevamo bere queste uova, tantissime. In viaggio ce le tiravamo da una vettura all’altra. Gli autisti erano imbestialiti: arrivavano a destinazione con i vestititi inzuppati".

Ma in queste occasioni nascevano anche flirt?

"Al Cantagiro non ricordo, per quanto mi riguarda a Canzonissima sì. Ero caposquadra e nel nostro gruppo una giovane Patty Pravo presentava un pezzo fortissimo: Ragazzo triste. Con Nicoletta c’è stata una storia durata sei mesi. Siamo rimasti amici. Devo dire che con le donne avevo successo, forse perché ricordavo i cantanti americani".

Oltre al Cantagiro ci fu anche il CantaEuropa.

"Ho partecipato a una delle due edizioni e ricordo un particolare bellissimo. A Vienna c’era il pubblico in delirio ma noi volevamo scherzare. L’idea la lanciò Nicola di Bari e cantò Piangerò in pugliese. Tutti applaudirono. Io non volevo essere da meno e presentai Dopo i giorni dell’amore in genovese. Alla fine Ricky Gianco cantò in sardo. Tutti si spellavano le mani, l’unico perplesso era l’ambasciatore italiano che però capì che era una goliardata. L’anno dopo a Londra ad ascoltare i cantanti italiani c’erano alcuni dei Beatles".

Anche in Francia successe qualcosa di strano…

"Siamo negli anni ’70 e sono con Tony Renis in un tour. Con noi un giovane Tom Jones che beveva come una spugna e per dimostrare di essere più virile si aumentava il volume del bassoventre gonfiando i pantaloni prima di entrare in scena".

A proposito di rimpatriate, ne ricorda una più recente.

"Solo pochi anni fa. Ero impegnato in uno show a Marina di Bibbona, nel Livornese, e sul palco ha fatto irruzione Beppe Grillo che ha una casa al mare lì vicino. Abbiamo cantato insieme cinque pezzi blues come da ragazzi, quando imitavamo il Musichiere in un locale di Nervi".

Ma ora lei Michele che fa?

"Mi rifugio nella musica suonata, ho sempre idee nuove, faccio progetti molto stimolanti con il gruppo genovese dei Red wine. Sono impostati su country, rock‘n roll, rockabilly. Spero che possano diventare presto un format teatrale".

Agli esordi faceva parte di quella straordinaria scuola che era l’etichetta Rca.

"Ci affidavano a Morricone e Bacalov che ti insegnavano per davvero. Era una palestra di livello internazionale. E sul mercato c’erano prodotti di qualità, non come adesso dove le canzoni sono quelle che sono e la gente ascolta quello che c’è".

Ci sono cantanti a cui si è ispirato e che stima?

"Io adoro il rock’n roll, ho amato i Platters, Elvis Presley ma anche Buscaglione, Carosone e Celentano. Tutti originali e creativi come Lucio Battisti e adesso Zucchero e Vasco".

Ma il rapporto con Fabrizio De Andrè è stato speciale.

"Per l’album La buona novella del 1970 io e l’autore bolognese Corrado Castellari abbiamo avuto un’idea per la musica del pezzo Il testamento di Tito. Un testo meraviglioso e ci voleva una ballata folk che valorizzasse Fabrizio. L’ho incisa anche io come lato B di Susan dei marinai, un altro mio successo. Questa canzone è stata scritta da De Andrè ma lui l’ha fatta firmare a Sergio Bardotti. Ho sempre pensato che fosse stato un gesto di riconoscenza di Fabrizio, un cadeaux, per quella musica che avevamo scritto per lui".

Per combattere la fase di declino di cosa ha bisogno la canzone italiana?

"La ricetta è in tre punti. In Italia si può campare e bene di cultura e musica ma chi ci governa deve finanziare il settore. Secondo: bisogna tutelare il diritto d’autore per far campare chi vuol far musica di mestiere. De Andrè decise di fare il cantante quando vide quanto incassava con i diritti de La canzone di Marinella. Terzo: chi lavora nello spettacolo deve essere tutelato da diritti. Non possiamo fare i precari a vita, dobbiamo avere garanzie previdenziali. Io non mollo e combatterò sempre. Mi sento come David Crockett a Fort Alamo".