Giovedì 25 Aprile 2024

"Mi licenzio, non ne posso più". È l’anno delle grandi dimissioni

Il fenomeno è esploso negli Usa, ma anche in Italia cresce il numero di chi rinuncia al posto per cambiare vita

I dati italiani

I dati italiani

È lunedì. Non posso sopportarlo. Vado in ufficio e mi licenzio. Vorreste farlo, vero? Ma poi vi ricordate di cosa raccomandava Maurizio Costanzo: "In Italia non ci si deve dimettere da nulla. Ne sono pronti, sempre, altri sette". Con calma, ci arriverete. Certe onde arrivano da Ovest come le perturbazioni e niente può fermarle, nemmeno il pensiero del mutuo. Jonathan Caballero, programmatore informatico di Hyattsville, nel Maryland, ha preso la decisione un anno fa. Si è accorto che a 27 anni i suoi capelli cominciavano a diradarsi. Non riusciva più ad andare in piscina. E la sera era troppo stanco per giocare con sua figlia. Una folgorazione: il mondo è pieno di posti da vedere mentre io spreco il mio tempo a fare il pendolare, la vita è una e passa troppo in fretta. I giornali americani parlano quasi solo di questo. Di Jonathan e di quelli come lui, un esercito, che lasciano il lavoro convinti di meritarsi di meglio. La chiamano con un’enfasi giustificata Great Resignation. O altrimenti "The big quit", che dà l’idea del terremoto.

Si è arrivati al punto che i gestori dei locali pregano i clienti di trattare bene il personale, perché ormai i dipendenti indispettiti non ci pensano due volte a prendere la porta. Lo hanno fatto in 4 milioni ad aprile, il trend si è mantenuto costante per mesi fino al picco di luglio, quando 10,9 milioni di persone hanno detto bye bye al loro capo (soprattutto in alberghi, ristoranti e negozi). Da noi è un fenomeno in lenta cottura. Un brasato che verrà servito in tutta la sua gloria non subito, ma presto sicuramente.

La mia amica Alessandra L. si è portata avanti tre anni fa. Faceva l’avvocato minorile a Torino, era stanca di umanità dolente, delle corse in motorino fra lo studio e il tribunale. In un mese ha affittato casa sua ed è partita per la Thailandia. "Prima imparo lo yoga e poi mi metto a insegnare", ha detto pagando da bere per tutti. "La pandemia ha cambiato la mia visione dell’esistenza", è stata la giustificazione di Mr. Caballero. Quella della mia amica andava modificandosi in tempi non sospetti, ma evidentemente qualcosa covava già prima del Covid. Le statistiche statunitensi confermano che le persone si licenziano anche senza avere sotto mano un piano B. E lo fanno perché cercano più soldi, flessibilità e felicità. È stato un risveglio collettivo dopo l’apparente tanatosi del lockdown: cosa rappresenta il lavoro per me? Quanto valgo? Come spendo il mio tempo?

L’economista Daniel Zhao spiega che in tempi normali dimissioni di massa di questo tipo segnalerebbero un sistema produttivo in piena salute con abbondanza di posti a disposizione. "Ma questi non sono tempi normali – avverte –. La pandemia ha portato alla peggiore recessione della nostra storia e milioni di persone sono ancora senza lavoro. Una situazione come quella attuale non si era mai vista". Paura del virus, paghe troppo basse, burnout. Secondo una ricerca di Microsoft su 30 mila lavoratori, il 41% starebbe considerando la possibilità di dimettersi, percentuale che sale al 54% fra i 18 e i 25 anni. Prima ci si limitava al lamento, ora si fa sul serio. Ci voleva un alibi globale per cambiare direzione e mettere in crisi le aziende, che adesso corrono ai ripari offrendo bonus e incentivi. Persino in Cina si è arrivati a mettere in discussione i ritmi di lavoro della cultura 996, turni dalle 9 alle 9 per 6 giorni alla settimana.

In Italia ci stiamo arrivando se è vero che nel secondo trimestre del 2021 si è registrato un aumento del 37% dei contratti terminati a causa delle dimissioni del dipendente, crescita che raggiunge l’85% paragonata allo stesso periodo dell’anno precedente. Lo smartworking ha svelato il grande inganno: basta ambienti di lavoro tossici, orari impossibili, pendolarismo sfiancante. Diventare un quitter in un mercato immobile come il nostro è sicuramente più difficile che in America, anche se non sono in sette ad aspettare: fa la grande scelta chi può permettersela, ma intanto il 50% degli italiani si dichiara favorevole al modello ibrido fra casa e ufficio e il 6,7% dichiara di essersi licenziato quando è stato costretto a tornare al tempo pieno. Il signor padrone è avvisato.