"Mi confessò un omicidio Gli ordinai di costituirsi"

L’arcivescovo Bregantini: portai conforto a un ragazzo pentito e distrutto "Ma non andò mai dai carabinieri, purtroppo fu ammazzato prima"

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di Giovanni Panettiere

"Un prete non può mai violare il segreto confessionale, neanche davanti a un killer che riconosca la sua colpa. Piuttosto deve imporre al penitente sul piano morale di recarsi lui dai carabinieri. Io l’ho fatto, proprio in un caso simile, ma quel ragazzo purtroppo scelse diversamente e pagò il suo silenzio con la vita". Sulla scorta del caso Cella e dell’omicida che avrebbe in confessione ammesso di aver ucciso la giovane segreteria, la cui morte risale a un quarto di secolo fa, il 73enne padre Giancarlo Bregantini torna con la memoria alla Locride. Là, dove per tredici anni è stato vescovo, prima di essere trasferito, nel 2007 a Campobasso per volere di papa Benedetto XVI, nonostante la fiducia che era riuscito a guadagnarsi, lui trentino fra la gente di Calabria con il suo impegno a favore della legalità. Terra difficile quella tra Sila e Aspromonte, teatro di faide ed omicidi efferati. Ma anche di confessioni inaspettate.

Era un delitto di ’ndrangheta quello che ascoltò in confessionale?

"Sì, il contesto in cui maturò l’omicidio era proprio quello. E il confessante era un giovane".

Lei non ci pensò minimamente di andare a denunciare questa persona?

"Per niente, decisi di restare fermamente ancorato al segreto confessionale. Noi chierici non possiamo mai violarlo: il sacramento della riconciliazione è un momento sacro in cui l’uomo davanti a Dio riconosce le sue responsabilità".

La legge italiana salvaguardia questo segreto.

"Ed è giusto che sia così, non ci possono essere deroghe".

Che cosa si prova ad ascoltare un uomo che confessa un omicidio?

"È un dolore immenso, anche perché non si può scendere nei particolari in quei momenti. Altrimenti si rischia di passare per degli indagatori e non è certo questo il compito di un confessore che, invece, è chiamato a restare sul piano morale e umano. Pronto come deve essere alla consolazione evangelica".

Ma, padre Bregantini, è proprio sicuro che quel giovane fosse pentito?

"Sì, era distrutto. Era venuto da me, perché aveva pienamente capito la gravità del fatto, lo sbaglio enorme che aveva commesso. Ricordo la sua voce, i suoi occhi... Gli avevo fatto capire che la sua vita era in pericolo e che non restava altro da fare se non costituirsi".

Perché sentì la necessità di obbligarlo moralmente ad andare ad autodenunciarsi?

"L’ho fatto in quanto è ciò che come uomini di Chiesa possiamo e dobbiamo realizzare in nome della giustizia terrena. In più sapevo che cosa rischiava, sentivo che, se non fosse andato dai carabinieri, l’avrebbero eliminato".

Un giusto presentimento... Il killer non le diede retta: si è sentito tradito?

"No, no, tradimento è una parola brutta, troppo forte. Non mi ha ascoltato, decise così e purtroppo lo ammazzarono. Il Signore, questo sì, ci sarà rimasto male. Da parte mia, invece, so solo che, a distanza di qualche tempo, mi sono recato al cimitero dove è sepolto per pregare fortemente per la sua anima e per la crescita della terra di Calabria".

Che cosa consiglierebbe di fare al prete che ha ricevuto la confessione dell’omicidio di Nadia Cella?

"È un caso che non conosco, non mi permetto di dire a un singolo presbitero come deve comportarsi in una situazione simile che è già tremenda di per sé".