Giovedì 18 Aprile 2024

Messner: "Ero il fratello più grande, dovevo salvare Gunther. In famiglia incolparono me"

Il grande alpinista rievoca la spedizione del 1970 sul Nanga Parbat: mi porto ancora dentro il dolore per quella tragedia "Mi hanno accusato di averlo abbandonato per arrivare da solo in vetta. Un’infamia, ci sono voluti trent’anni per la verità"

Reinhold Messner con lo scarpone del fratello ritrovato sul Nanga Parbat

Reinhold Messner con lo scarpone del fratello ritrovato sul Nanga Parbat

"È passato mezzo secolo e mi porto ancora dentro la morte di mio fratello Gunther. È un peso enorme, che per molto tempo si è accompagnato al senso di colpa. Non riuscivo ad accettarlo. Quella tragedia ha cambiato per sempre la mia vita".

Nanga Parbat, 8125 metri d’altezza, in sanscrito la montagna nuda. Secondo tutti gli alpinisti la più terribile delle vette. Per Reinhold Messner, 76 anni, l’uomo che per primo ha scalato i 14 ottomila del mondo, è un ricordo che non si cancella. Tutta l’esistenza in tre giorni: 27, 28 e 29 giugno 1970. Alla spedizione himalayana del tedesco Karl Maria Herrligkoffer partecipano due ragazzi di 26 e 24 anni, altoatesini, scalatori eccellenti. Due fratelli, due amici: Reinhold e Gunther. "Eravamo entusiasti e onorati di affrontare quell’impresa", racconta il più grande, quello che ce l’ha fatta. La storia è spietata.

27 giugno. I due fratelli sono fermi con Gerhard Baur al quinto campo, l’ultimo prima di un traguardo ritenuto impossibile. Il tempo peggiora, Reinhold decide di salire da solo lungo la parete Rupal, una muraglia inviolata. Gli altri due avrebbero attrezzato il canalone con le corde per facilitare la discesa. Gunther invece lo raggiunge: salgo con te. È ormai pomeriggio tardi, bufera in arrivo. "Vedevamo la sommità a 150 metri, lì a portata di mano. È stato quello il nostro errore: dovevamo tornare indietro. Abbiamo continuato". Allestiscono un bivacco d’emergenza in condizioni disumane: 30 gradi sottozero, né tenda né piumini.

28 giugno. Inizia la discesa, stavolta dal versante Diamir. Ancora più impervio del Rupal. "Percorso difficilissimo ma diretto, bisognava fare in fretta perché Gunther era esausto. Stava molto male". Nuovo bivacco sullo Sperone Mummery, il punto impossibile. Entrambi sono allo stremo, tagliati fuori dal resto del gruppo. "Ho capito che eravamo in trappola oltre l’accettabile".

29 giugno. La discesa è quasi alla fine, Gunther viene travolto da una valanga. Sparisce nella neve. Reinhold lo cerca per un giorno e una notte, poi crolla sfinito. Lo credono morto assieme all’altro. Arriva a valle sei giorni dopo in barella soccorso da una cordata di sherpa: è semi incosciente. Subisce l’amputazione parziale delle dita dei piedi ma sopravvive. Lui sì, il fratello no.

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Quanto è stata dura?

"Tornato a casa, ho affrontato lo sguardo di tutti. I genitori, i sette fratelli. Sentivo il loro rimprovero: dovevi riportarcelo. È stato molto doloroso".

Ma fra lei e Gunther c’erano appena due anni di differenza: perché questo opprimente senso di colpa?

"Da noi i più grandi proteggono i più piccoli. Mio padre, maestro di scuola, mi ha detto a muso duro: hai finito con la montagna, torni a studiare. Sono stato un anno fermo a pensare".

E sua madre?

"Ha tentato di aiutarmi, anche se era quella che soffriva di più. Nessuna madre vorrebbe sopravvivere al proprio figlio".

Lei è stato accusato ingiustamente dai membri della spedizione.

"È stata un’infamia. Hanno detto che avevo abbandonato mio fratello in vetta per attraversare da solo il Diamir, per essere l’unico. La calunnia è montata, mi sono difeso ma l’ombra è rimasta".

Come ha resistito?

"Sono tornato a cercare il corpo l’anno dopo, sperando che i ghiacci me lo restituissero. Inutile. Ho pagato per anni i montanari himalayani perché lo trovassero".

Finché?

"Finché nel 2005 sono emersi i resti di Gunther, nel punto in cui era scomparso mentre eravamo insieme. Dove ho indicato io, a 4600 metri di quota. Ossa, ciocche di capelli, brandelli della giacca, uno scarpone: l’ho riconosciuto subito. L’analisi del Dna ha confermato. Ho dimostrato che avevo ragione, gli altri mentivano".

E la sua famiglia?

"L’anno dopo ho portato tutti sul Nanga Parbat. Eravamo in 24 per l’addio a Gunther, ma i miei genitori non c’erano più. È stato l’ultimo atto della tragedia: la pacificazione".

Il Nanga Parbat ha ucciso suo fratello e quasi ucciso lei. Eppure i suoi occhi si illuminano quando ne parla.

"È la montagna più bella. È unica. Ha un fascino di grandiosa magnificenza".

L’ha scalata in solitario. Perché?

"Avevo un conto da saldare. Ho provato nel ‘74 e nel ‘77. Nel ‘78 ci sono riuscito, mi ero liberato mentalmente dei pesi".

Non è il suo nemico?

"No, è casa mia. Ho speso tanti soldi per costruire scuole nella vallata. La natura ha le sue regole, non è mai maligna. Va rispettata".

Eppure lassù è stato a un passo dalla fine.

"Fa parte del gioco. Ero solo, senza più forze, disposto a morire. Chiudere gli occhi e abbandonarsi era più facile che andare avanti: è subentrato l’istinto di sopravvivenza. La realtà è molto semplice".

Che cos’è il pericolo?

"Qualcosa che devi saper prevedere. L’arte dell’alpinista è questa. Molti ci credono pazzi: tutto il contrario. Impariamo a cavarcela da soli".

Ha più paura o più coraggio?

"Sono termini indivisibili".

Lei ha tre figlie e un maschio, Simon, trent’anni. Teme per lui quando è in parete?

"Un mese fa ho ricevuto una telefonata dal Karakorum: era la sua prima ascensione in alta quota. Non sappiamo se è vivo, hanno avvisato. Ho risposto: potete solo aspettare, quando il tempo migliorerà andate a cercarlo. Simon sa quello che fa, non gli dirò mai di rinunciare".

Quali sono i limiti dell’uomo Messner?

"Con l’esperienza ho imparato a conoscerli, spostandoli ogni volta un po’ più in là. Sto attento a non oltrepassarli: è l’alpinismo della rinuncia. Gunther sul Nanga Parbat era responsabile di se stesso, come io lo ero della mia sorte. Mi sono assunto la sua responsabilità quando non ce l’ha fatta più. Ma non ho potuto salvarlo".

Come si definisce?

"Sono un anarchico, esco dal mondo civilizzato per esplorare luoghi dove il potere appartiene al Creato. Scalare una vetta non è uno sport: è narrazione, filosofia, bellezza".

È stato così fin da ragazzo?

"Se non fossi nato in Val di Funes sarebbe stato diverso. E’ una valle stretta e angusta, tutti arrampicano. Sei obbligato a salire in cima se vuoi scoprire cosa c’è dall’altra parte. Io ho vissuto molte vite: sulle montagne, ai Poli, nel deserto del Gobi".

Ha incontrato la morte: è riuscito a vedere oltre quel confine?

"Credo che l’aldilà sia una foto scattata da mio figlio in Giordania: una parete di arenaria perfettamente verticale e dietro solo l’orizzonte. Il silenzio totale e assoluto, lo spazio infinito, il tempo che non esiste più. C’è chi lo chiama Dio".